(Carlo Rebecchi)
Dal 7 ottobre scorso, quando Hamas ha attaccato Israele, nelle basi militari statunitensi del Medio Oriente e del Golfo le giornate sono quotidianamente scandite da scontri armati, definiti di “bassa intensità”, con qualcuna delle “milizie iraniane” alimentate dall’Iran tra Libano, Yemen, Iraq e Siria. Combattimenti con missili, droni, raid aerei. Nell’ ultimo attacco dello scorso fine settimana contro la base aerea Usa di Al Asad, in Iraq, si stima che circa 17 razzi e missili balistici a corto raggio siano riusciti a superare i sistemi di difesa aerea. Un numero imprecisato di militari è stato segnalato come ferito, ma nessuno sarebbe stato ucciso. Secondo il New York Times, “il presidente Biden e i suoi consiglieri temono però che sia soltanto una questione di tempo. Ogni volta la notizia di una di queste operazioni arriva alla “Situation Room” della Casa Bianca i funzionari si chiedono se sarà quello che imporrà una ritorsione più decisiva e si tradurrà in una guerra regionale più ampia”. L’uccisione di militari americani uccisi in queste operazioni sarebbe la scintilla destinata a far bruciare l’intero Medio Oriente.
Due giorni prima dell’attacco alla base di Al Asad, le medesime milizie sostenute dall’Iran avevano effettuato 140 attacchi contro le truppe americane in Iraq e in Siria, con quasi 70 militari feriti, alcuni con lesioni cerebrali. L’esercito americano ha a volte organizzato ritorsioni, perché gli Usa non vogliono che tali attacchi restino senza risposta ma non vogliono neppure arrivare al punto che il conflitto si trasformi in una vera e propria guerra. “In privato – scrive il New York Times – le fonti militari aggiungono però che potrebbero non avere scelta se soldati americani venissero uccisi”. Questa linea rossa non è stata superata, ma se mai le milizie appoggiate dall’Iran avessero un giorno migliore mira o migliore fortuna, potrebbe facilmente esserlo.
“L’amministrazione Biden è davanti a un problema senza soluzioni prive di rischi”, ha detto al New York Times Aaron David Miller, negoziatore di pace di lunga data in Medio Oriente e ora presso il Carnegie Endowment for International Peace. “Non vogliono colpire direttamente l’Iran per paura di una escalation, che non fa altro che ampliare il margine per i gruppi filo-iraniani, compresi gli Houthi, di colpire le forze statunitensi. Ad un certo punto, se soldati americani verranno uccisi, non ci sarà altra alternativa se non quella di rispondere direttamente contro le forze iraniane”.
L’opposizione repubblicana getta la responsabilità sul presidente. “La debolezza, l’indecisione e le mezze misure di Joe Biden non sono riuscite totalmente a proteggere gli americani”, ha accusato il senatore repubblicano dell’Arkansas Tom Cotton. La Casa Bianca ha respinto l’accusa secondo cui negli ultimi anni l’amministrazione Biden sarebbe stata troppo morbida nei confronti dell’Iran, e aggiunge che oggi il problema è, “come si sta cercando di fare, di gestire i molteplici punti di crisi in parallelo con sforzi per trovare il modo di spingere Israele a ridurre la sua guerra contro Hamas ad un’operazione con meno vittime civili”. La “risposta” israeliana all’attacco di Hamas avrebbe infatti già ucciso più di 25.000 persone, alcune delle quali combattenti di Hamas, ma per la maggior parte donne e bambini.
Un emissario della Casa Bianca sarebbe partito domenica per il Medio Oriente nel tentativo di giungere ad un nuovo accordo tra Israele e Hamas per il rilascio di alcuni dei 120 ostaggi ancora ritenuti detenuti da Hamas in cambio di almeno una pausa nei combattimenti. Con la tensione al top. Il New York Times scrive che i funzionari dell’amministrazione Biden affermano “di essere preoccupati che il conflitto nel Medio Oriente possa peggiorare, anziché migliorare”. E ribadiscono che per gli Usa l’obiettivo rimane quello di “cercare di garantire la gestione dell’escalation nella massima misura possibile, adottando ogni misura possibile, per alla fine poter imboccare un percorso di diplomazia e di allentamento delle tensioni”.
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