Il viaggio di Biden in Israele e la difficile diplomazia delle emozioni

(Marzia Giglioli)

Riflessioni sul viaggio del presidente Usa in Israele e sul ‘peso’ delle emozioni in questa nuova guerra dove c’entrano anche gli algoritmi. Spegniamo gli algoritmi: non quelli dell’intelligenza artificiale ma quelli che abbiamo dentro.

Spegnamo gli algoritmi che puntano al coinvolgimento per affrontare invece le tane dei contenuti. Difficile rimanere imparziali di fronte alle immagini del terrore di Hamas e a quelle delle vittime dell’ospedale di Gaza ma sappiamo anche che questa nuova guerra si combatte in rete e che perfino la diplomazia ne subisce le conseguenze. Lo abbiamo visto in queste ore con il viaggio di Biden in Israele. La posta in gioco non potrebbe essere più alta, ha scritto ieri il Guardian. ‘Una guerra più ampia in Medio Oriente potrebbe incoraggiare la Russia in Ucraina e incoraggiare la Cina a prendere Taiwan’. Intanto le ultime immagini del bombardamento sull’ospedale a Gaza influenzano il già difficile compito di trovare soluzioni e pongono Biden di fronte ad una delle prove più difficili.

Dopo le violenze atroci di Hamas e le emozioni delle ultime due settimane, la visita era già ‘una scommessa politica’ – scrive ancora il Guardian – ‘ma quando da Gaza è arrivata la notizia del bombardamento dell’ospedale al-Ahli al-Arabi, l’ansia per ciò che la visita in Israele del presidente Usa avrebbe potuto ottenere ha sicuramente raggiunto nuovi livelli’.

‘Con il bilancio delle vittime degli ospedali di Gaza in aumento e con l’indignazione popolare che percorre tutta la regione, i leader arabi si sono ritirati dall’incontro programmato con Biden ad Amman. In questo modo, i leader palestinesi, giordani ed egiziani hanno reso immediatamente più difficile almeno uno degli obiettivi chiave di Biden: usare l’influenza presidenziale americana per scoraggiare l’escalation’.

È difficile restare in equilibrio. La diplomazia corre sul filo delle emozioni e attraversa il terreno sempre più solcato dalle verità e non verità mediate. ‘E’ ora di rompere il vetro di emergenza’, hanno detto nei giorni scorsi alcuni guru delle maggiori piattaforme digitali invitando tutti ad ‘eliminare gli algoritmi guidati dal coinvolgimento’ e aggiungendo che ‘le fabbriche di disinformazione causeranno sempre più instabilità geopolitica e metteranno in pericolo ebrei e musulmani nelle prossime settimane’.

Di ora in ora c’è una escalation di messaggi crudi e ‘ravvicinati’ che stanno costringendo anche le piattaforme a camminare su una linea sottile.

E pesa sempre di più, nell’informazione digitale (piattaforme e social media), una cultura che ‘incoraggia’ a condividere e a testimoniare le informazioni sulla crisi come un modo per segnalare la propria posizione personale, indipendentemente se si sia informati o meno.

‘Bisogna essere molto cauti nel condividere contenuti nel bel mezzo di un grande evento mondiale’, sostengono molti analisti della rete, sapendo che molti progetti mediatici sono progettati sull’odio.

Difficile svolgere analisi lucide.

Le grandi piattaforme, al di là dei giudizi e delle ‘colpe’ sui rispettivi schieramenti sulle quali le Autorità di garanzia stanno indagando, sono comunque intrappolate in questa dinamica della domanda in cui gli utenti desiderano sempre di più contenuti e informazioni più ‘reali’ sugli eventi.

Ma la vicinanza a una situazione non corrisponde all’autenticità o all’obiettività. E, a pagare il prezzo più alto, saranno solo la verità e una pace sempre più lontana.

(riproduzione autorizzata citando la fonte)

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