(Marco Emanuele)
La Storia recente ci mostra come gli straordinari avanzamenti che stiamo creando vivano dentro una condizione di precarietà e d’insostenibilità sistemica. Mentre, da un lato, il mondo corre sempre più velocemente, dall’altro lato – nel profondo – emergono continui richiami alle crescenti difficoltà di buona parte dell’umanità. Non ci preoccupa la compresenza d’innovazione e d’involuzione ma l’incapacità di comprendere che l’ordine non è estraneo al disordine. Separare il progresso dal regresso, voler cristallizzare l’armonia ‘difendendola’ dalle disarmonie, evocando impossibili purezze e l’assenza di contraddizioni e di conflitto, significa non essere immuni dai richiami totalitari (e, forse, mai potremo esserlo completamente). Se, come crediamo, non torneranno i sistemi totalitari che abbiamo conosciuto nel Novecento, ci sono una serie di ‘segni dei tempi’ che dovrebbero farci riflettere, inducendoci a lavorare – per un nuovo umanesimo e per la pace – nel ri-pensamento e nella ri-costruzione.
Siamo tra coloro che pensano che il conflitto, inteso come naturale confronto tra differenze, non sia in sé un dato negativo. Anzi, crediamo che, in democrazia, il conflitto sia un elemento sano, consustanziale. Doppio errore: negare il conflitto, da un lato, e non mediarlo, dall’altro.
La persistenza della Storia, o la sua ‘non fine’, si mostra attraverso identità sempre più radicalizzate che cercano un posto adeguato sul palcoscenico planetario. Ciò che vediamo, spesso (e pericolosamente) strumentalizzando l’elemento religioso, è la chiusura identitaria, il volersi ritrovare tra ‘eguali’, il volersi continuamente separare da ogni altro. Ciò che è in atto non è solo una gigantesca ricomposizione dei rapporti di potere a livello internazionale ma è, soprattutto, la separazione tra differenze che si vorrebbero non dialoganti, distanti a prescindere.
Non saranno le ‘agorà’ digitali a rappresentare la via di uscita dalla radicalizzazione identaria e dalla tentazione di radicalizzare il conflitto tra differenze. Non potrà essere la mentalità algoritmica a tracciare i percorsi di un nuovo umanesimo. Ci vuole pensiero complesso, del tutto umano, che gli strumenti tecnologici della modernità potranno (eventualmente) sostenere. Quando scriviamo, nell’orizzonte della pace, di ri-pensamento e ri-costruzione, intendiamo collocarci sul pur fragile crinale della trasformazione del conflitto. Occorre, prima di tutto, abbandonare la logica del ri-vendicare, oggi imperante, ri-trovando il ‘realismo della pace’ nel ‘realismo del conflitto’.
Per superare la logica della ri-vendicazione identitaria occorre, come scrivevamo in altra riflessione, pre-occuparci della crisi de-generativa della ‘democrazia costituita’ che non permette una effettiva rappresentatività delle istanze popolari.
(English version)
Recent History shows us how the extraordinary advances we are creating exist within a condition of precariousness and systemic unsustainability. While, on the one hand, the world is moving ever faster, on the other hand – deep down – continuous reminders of the growing difficulties of a large part of humanity emerge. We are not concerned about the co-presence of innovation and involution but rather the inability to understand that order is not unrelated to disorder. Separating progress from regression, wanting to crystallize harmony by ‘defending’ it from disharmonies, evoking impossible purities and the absence of contradictions and conflicts, means not being immune from totalitarian calls (and, perhaps, we can never be completely immune). If, as we believe, the totalitarian systems we knew in the twentieth century will not return, there are a series of ‘signs of the times’ that should make us reflect, leading us to work – for a new humanism and for peace – in re-thinking and re-construction.
We are among those who think that conflict, as a natural confrontation between differences, is not in itself a negative fact. Indeed, we believe that, in democracy, conflict is a healthy, consubstantial element. Double mistake: denying the conflict, on the one hand, and not mediating it, on the other.
The persistence of History, or its ‘non-end’, is shown through increasingly radicalized identities seeking an adequate place on the planetary stage. What we see, often (and dangerously) exploiting the religious element, is the closure of identity, the desire to find oneself among ‘equals’, the desire to continuously separate oneself from everyone else. What is taking place is not only a gigantic recomposition of power relations at an international level but, above all, the separation between differences that are supposed to be non-dialoguing, distant regardless.
The digital ‘agoras’ will not represent the way out of identity radicalization and the temptation to radicalize the conflict between differences. It cannot be the algorithmic mentality that traces the paths of a new humanism. It takes complex, completely human thinking, which the technological tools of modernity will (eventually) be able to support. When we write, in the horizon of peace, of re-thinking and re-construction, we intend to place ourselves on the albeit fragile ridge of conflict transformation. It is necessary, first of all, to abandon the logic of re-avenging, which is prevalent today, re-finding the ‘realism of peace’ in the ‘realism of conflict’.
To overcome the logic of identity re-avenging it is necessary, as we wrote in another reflection, to worry about the de-generative crisis of ‘established democracy’ which does not allow an effective representativeness of popular demands.
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