(Marco Emanuele)
La quantità di volte in cui sentiamo evocare la parola ‘pace’ potrebbe far pensare che ci sia una convinzione diffusa, e condivisa, della sua importanza. Eppure, viviamo nella continua evidenza del tradimento della complessità della pace, e non solo per la persistenza delle guerre. La pace è, secondo noi, la condizione indispensabile per ri-trovare la speranza di futuri possibili.
I percorsi di nuovo umanesimo passano attraverso la necessità di un pensiero complesso. Dentro la grande trasformazione nella quale siamo immersi, l’umanità ha la responsabilità di ri-pensarsi profondamente, problematizzando tutti i paradigmi culturali e operativi che ci hanno portato fin qui.
Non bastano più gli appelli morali, così come le soluzioni settoriali. Scrivendo di trasformazione, intendiamo sottolineare che non stiamo vivendo un semplicistico cambiamento, un processo che si risolve con nuove regole. Quelle sono necessarie, lo sappiamo bene, ma non fanno la differenza nella situazione attuale. Qui sta la grande difficoltà che riguarda sia il nostro approccio personale che le decisioni strategiche prese dai governi e nei fora internazionali. Occorre essere consapevoli che, nella grande trasformazione in atto, servono ri-pensamento e ri-costruzione: i nuovi nomi della pace.
Qualcosa di molto profondo
Più la storia va avanti, più sembra allargarsi lo iato tra le grandi difficoltà che vive buona parte dell’umanità e le evidenti capacità dell’umanità stessa di percorrere l’oltre, soprattutto in campo tecnologico. L’umanità è divisa. La violenza sembra aver superato le ‘regole morali’ che conoscevamo: ciò che impressiona ancora di più è che ciò avvenga nel tempo straordinariamente innovativo dell’intelligenza artificiale. Violenza, inoltre, si somma a una superficialità dilagante e a una cultura della separazione che scava.
Qualcosa di molto profondo sta percorrendo le nostre vite e fa parte della complessità dell’esperienza che siamo e che viviamo. Nel condannare il male che vediamo espandersi (nessuno può giustificare, a esempio, ciò che è accaduto il 7 ottobre 2023 per mano di Hamas o l’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca del febbraio 2022), crediamo che lo sguardo debba diventare più ampio e calarsi nel ‘chi diventiamo’. Ci fa paura percorrere il profondo di noi ma la metanoia necessaria passa attraverso la presa d’atto delle nostre zone oscure.
Il tempo che viviamo ci mostra, drammaticamente, che il male banale ci appartiene. Abbiamo fatto molto, particolarmente in democrazia, per creare gli anticorpi necessari a moderare gli istinti della violenza-per-la-violenza. Ma, soprattutto negli ultimi decenni, abbiamo sempre di più ‘modellizzato’ la democrazia, di fatto indebolendola rispetto alle sfide della Storia.
Il ‘profondo’ della Storia e delle storie non sembra entrare nella traiettoria del ‘costituito’ statuale e democratico. Si è creata una ulteriore separazione perché la rappresentatività delle istanze popolari non sembra trovare cittadinanza in sistemi burocratici, sempre più escludenti e sempre più separanti. Sistemi che non lasciano spazio al pensiero critico ma che vorrebbero garantire ‘compiutezza’ a fronte di una incertezza non compresa e non governata che diventa generatrice di insicurezza e di disagio.
(English version)
The amount of times we hear the word ‘peace’ mentioned might suggest that there is a widespread and shared belief in its importance. Yet, we live in the continuous evidence of the betrayal of the complexity of peace, and not only because of the persistence of wars. Peace is, in our opinion, the indispensable condition for re-discovering hope for possible futures.
The paths to new humanism pass through the need for complex thinking. Within the great transformation in which we are immersed, humanity has the responsibility to deeply rethink itself, problematizing all the cultural and operational paradigms that have brought us this far.
Moral appeals are no longer enough, as are sectoral solutions. By writing about transformation, we want to underline that we are not experiencing a simplistic change, a process that is resolved with new rules. Those are necessary, we know it well, but they don’t make a difference in the current situation. Here lies the great difficulty which concerns both our personal approach and the strategic decisions taken by governments and in international fora. We need to be aware that, in the great transformation underway, re-thinking and re-construction are needed: the new names for peace.
Something very profound
The more history progresses, the more the gap seems to widen between the great difficulties that a good part of humanity experiences and the evident ability of humanity itself to go beyond, especially in the technological field. Humanity is divided. Violence seems to have overcome the ‘moral rules’ we knew: what is even more impressive is that this is happening in the extraordinarily innovative time of artificial intelligence. Furthermore, violence adds to a rampant superficiality and a culture of separation that digs.
Something very profound is running through our lives and is part of the complexity of the experience that we are and that we live. In condemning the evil that we see spreading (no one can justify, for example, what happened on 7 October 2023 at the hands of Hamas or Moscow’s invasion of Ukraine in February 2022), we believe that the gaze must become more broad and immerse ourselves in ‘who we become’. It scares us to explore the depths of ourselves but the necessary metanoia comes through acknowledging our dark areas.
The time we live in shows us, dramatically, that banal evil belongs to us. We have done a lot, particularly in democracy, to create the antibodies necessary to moderate the instincts of violence-for-violence’s sake. But, especially in recent decades, we have increasingly ‘modelled’ democracy, effectively weakening it compared to the challenges of History.
The ‘depth’ of History and stories does not seem to enter the trajectory of the State and democratic ‘establishment’. A further separation has been created because the representativeness of popular demands does not seem to find citizenship in bureaucratic systems, which are increasingly exclusionary and separating. Systems that leave no space for critical thinking but which would like to guarantee ‘completeness’ in the face of a misunderstood and ungoverned uncertainty which becomes a generator of insecurity and discomfort.
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