(Marco Emanuele)
Secondo Richard Haass, Washington deve convincere Israele ad evitare l’intervento di terra a Gaza
Richard Haass, Presidente Emerito del Council on Foreign Relations, esprime dubbi sull’efficacia dell’annunciata reazione israeliana all’attacco brutale di Hamas del 7 ottobre scorso. Perché, scrive Haass su Foreign Affairs (15 ottobre 2023, ‘What Friends Owe Friends’), ‘Hamas è una rete, un movimento e un’ideologia tanto quanto un’organizzazione. La sua leadership può essere uccisa, ma l’entità o qualcosa di simile sopravviverà’.
La posizione di Washington, proprio perché amico di Israele, deve essere quella di indurre l’alleato a riflettere con più calma. Nota Haass che, se gli Stati Uniti ‘non possono costringere Israele a rinunciare a una massiccia invasione di terra o a ridurla subito dopo averla lanciata, (…) possono e devono provarci. Dovrebbero anche prendere provvedimenti per ridurre le possibilità che la guerra si allarghi. E devono guardare oltre la crisi, facendo pressione sulle loro controparti israeliane affinché offrano ai palestinesi un percorso pacifico e fattibile verso la creazione di uno Stato’. Gli Stati Uniti, inoltre, devono cercare di salvaguardare il più possibile i propri interessi nell’area.
Haass sottolinea i motivi per cui l’invasione di terra da parte di Israele sarebbe da evitare.
In primo luogo, ‘un’invasione su larga scala comporterebbe costi quasi certamente superiori ai benefici. Hamas non presenta buoni obiettivi militari, poiché ha profondamente radicato la sua infrastruttura militare nelle aree civili di Gaza. Un tentativo di distruggerla richiederebbe un assalto su larga scala in un ambiente urbano densamente popolato, che si rivelerebbe costoso per Israele e porterebbe a vittime civili che genererebbero sostegno per Hamas tra i palestinesi. Anche Israele subirebbe gravi perdite e altri soldati potrebbero essere rapiti’. Ancora, scrive Haass, ‘l’impiego di forze massicce contro Gaza (rispetto a un’azione più mirata contro Hamas) provocherebbe anche una protesta internazionale. L’ulteriore normalizzazione con i governi arabi, soprattutto con l’Arabia Saudita, verrebbe bloccata; le relazioni esistenti di Israele con i suoi vicini arabi verrebbero messe in pausa o forse addirittura annullate. Un impegno militare ampio e prolungato potrebbe anche portare a una guerra regionale più ampia, scatenata da una decisione consapevole di Hezbollah (sollecitato dall’Iran) di lanciare razzi contro Israele o da esplosioni spontanee di violenza in Cisgiordania rivolte agli israeliani o ai governi arabi (specialmente quelli di Giordania ed Egitto) da tempo in pace con Israele’.
La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che, anche se fosse sconfitto Hamas, non si risolverebbe il problema del governo della Striscia di Gaza. L’Autorità Nazionale Palestinese mostra limiti evidenti e, secondo Haass, il rischio è che ‘Hamas, o un suo facsimile, emergerebbe presto, come è successo dopo il ritiro di Israele da Gaza nel 2005’.
Haass sottolinea come non sia in discussione il diritto di Israele a difendersi e a reagire all’attacco subito. Il problema è il come: ‘Un’opzione diversa sarebbe quella di evitare un’invasione e un’occupazione su larga scala di Gaza e di effettuare invece attacchi mirati contro i leader e i combattenti di Hamas; il potenziale militare di Hamas verrebbe degradato e le vittime militari israeliane e civili palestinesi sarebbero ridotte al minimo. Israele dovrebbe anche ristabilire le capacità militari lungo il confine con Gaza, il che contribuirebbe a ripristinare la deterrenza e a rendere meno probabili futuri attacchi terroristici’. Ancora Haass: ‘Sia gli Stati Uniti che Israele dovrebbero voler evitare un esito che preveda che Israele sia costretto a un cessate il fuoco in mezzo a un’ampia condanna a livello regionale e globale. I governi arabi, compresa l’Arabia Saudita, potrebbero rafforzare questo messaggio e contribuire a facilitare il rilascio degli ostaggi israeliani, segnalando a Israele che la normalizzazione potrebbe procedere dopo la fine della guerra, se Israele si dimostrerà responsabile’.
Un secondo obiettivo americano dovrebbe essere lavorare per evitare l’allargamento del conflitto, in particolare considerando il possibile coinvolgimento di Hezbollah nella guerra. E’ interessante questo passaggio di Haass (pressioni su Teheran parlando a Pechino): ‘Gli Stati Uniti hanno una capacità limitata di tenere a bada Hezbollah. Né, come suggerisce la storia, Israele ha buone opzioni in Libano. Ma Washington potrebbe aiutare informando l’Iran che sarà ritenuto responsabile delle azioni di Hezbollah. Ciò richiederebbe che gli Stati Uniti segnalino che sono pronti a infliggere dolore all’Iran se Hezbollah attacca Israele, ad esempio riducendo le esportazioni di petrolio dell’Iran (attualmente circa due milioni di barili al giorno). Poiché gran parte di questo petrolio finisce in Cina, i responsabili politici statunitensi dovrebbero considerare di far sapere alle loro controparti cinesi che Washington è pronta a fermare gran parte di questo commercio sanzionando chi importa petrolio iraniano o, se necessario, attaccando alcuni impianti di produzione o di raffinazione iraniani. Pechino potrebbe essere disposta a usare la sua leva con l’Iran, poiché l’ultima cosa di cui ha bisogno la travagliata economia cinese è un aumento dei costi energetici. Washington dovrebbe inoltre sospendere a tempo indeterminato qualsiasi ulteriore allentamento delle sanzioni e ribadire i limiti della sua tolleranza nei confronti del programma nucleare iraniano’.
Poche, soprattutto in questa fase, sembrano essere le opzioni diplomatiche per il dopo, per risolvere l’annosa questione palestinese. Haass suggerisce la soluzione a due Stati, peraltro criticata da molti analisti come non più (o molto difficilmente) praticabile, e ricorda la lezione dell’Irlanda del Nord. Ma, sottolinea Haass, dovranno venire tempi migliori: sia per assenza di controparte in campo palestinese, sia per le condizioni politiche in Israele.
Occorrerebbe, secondo Haass, che Washington ponesse ‘limiti precisi all’attività di insediamento in Cisgiordania, articolasse principi sullo status finale che includano uno Stato palestinese e specificassero condizioni rigorose, ma comunque ragionevoli, che i palestinesi potrebbero soddisfare per raggiungere questo obiettivo’. Curiosamente, conclude Haass, gli Stati Uniti si sono concentrati sulla critica alle scelte di politica interna d’Israele (in particolare, la riforma giudiziaria), non ponendo il punto sulla questione palestinese che, visti gli ultimi accadimenti, è decisamente più importante.
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