(Marzia Giglioli)
Stereotipo. La key word che spiega la guerra. La “colpa” delle parole
Le parole sono armi e sono più potenti di un laser perchè entrano “dentro” e scavano solchi nel pensiero e nel pensare.
A dieci giorni dagli orrori di Hamas e nelle ore in cui Israele porta avanti la sua risposta, cresce la “guerra parallela” delle parole che sovrasta quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza e che invade ogni angolo del mondo.
E’ difficile, se non impossibile, vivere il dramma di Gaza “senza parole” ma è obbligo morale saperle misurare con l’etica che dovrebbe sovrastare sul linguaggio.
L’analisi storica della guerra israelo-palestinese sta riempiendo le pagine dei media, si cercano lì le ragioni per comprendere i fatti e la violenza dell’eccidio: ma, in queste pagine, vorremmo invece indagare nelle parole, quelle che danno origine agli scontri e ai conflitti. Vorremmo analizzare le parole, mai come in questo momento, nel loro processo conseguente cercando quale sia la vera “key word” che comprenda i fatti e possa spiegarne le ragioni. Ci sembra che la parola “stereotipo” funzioni: secondo il vocabolario essa significa “fissità immutabile” mentre, in psicologia, significa “opinione rigidamente precostituita e generalizzata che prescinde dalla valutazione dei singoli casi”.
Si potrebbe concludere che gli stereotipi siano l’ostacolo alla verità ma sarebbe una riflessione troppo fragile. Forse esiste una “colpa” nelle parole e alcune dovrebbero davvero essere cancellate dal vocabolario e dal pensare comune perché nascondono troppe insidie. La “colpa” dello stereotipo è di avere effetti impliciti generando giudizi conseguenti; esso segna un limite mentale che aumenta quando abbiamo meno tempo per giudicare, anche per la velocità dell’informazione che spesso riduce la nostra capacità di pensare “complesso”.
E lo si vede in questi giorni, laddove le contrapposizioni prevalgono e tolgono lo spazio necessario ad analizzare e ad anticipare le conseguenze.
Ripensare le visioni schematiche del mondo è un processo lungo ma necessario se si vuole arrivare ad una “ri- discussione” per uscire dalla logica unica del giudizio che non lascia altri spazi tra chi ha torto e chi ha ragione. Ed è quanto mai necessario “ricategorizzare”, pensando se stessi e gli altri non come persone di un determinato Paese, bensì come esseri umani. Attualizzando quanto accade in Medio Oriente, sarebbe ancora meglio “decategorizzare”, per non cadere nello stereotipi che i palestinesi siano Hamas.
Gli aspetti automatici e impliciti degli stereotipi purtroppo dilagano sui media e sui social ed entrano anche nelle rappresentazioni dell’intelligenza artificiale. Tutto troppo pericoloso.
(English version)
Stereotype. The key word that explains war. The ‘guilt’ of words
Words are weapons, and they are more powerful than a laser because they enter ‘inside’ and dig furrows in thought and thinking.
Ten days after the horrors of Hamas and in the hours when Israel is carrying out its response, the ‘parallel war’ of words is growing, overriding what is happening in the Gaza Strip and invading every corner of the world.
It is difficult, if not impossible, to live the drama of Gaza ‘without words’ but it is a moral obligation to know how to measure them with the ethics that should override language.
The historical analysis of the Israeli-Palestinian war is filling the pages of the media, the reasons for understanding the facts and the violence of the massacre are sought there: but, in these pages, we would like instead to investigate the words, those that give rise to the clashes and conflicts. We would like to analyse words, never before as in this moment, in their consequent process, looking for what is the real “key word” that understands the facts and can explain their reasons. It seems to us that the word ‘stereotype’ works: according to the dictionary, it means ‘immutable fixity’ while, in psychology, it means ‘rigidly pre-constituted and generalised opinion that disregards the evaluation of individual cases’.
We could conclude that stereotypes are the obstacle to truth but that would be a too fragile reflection. Perhaps there is a ‘guilt’ in words and some should really be erased from the vocabulary and common thinking because they hide too many pitfalls. The ‘guilt’ of the stereotype is that it has implicit effects by generating consequent judgements; it marks a mental limit that increases when we have less time to judge, also because of the speed of information that often reduces our ability to think ‘complex’.
And we see this these days, where oppositions prevail and take away the space needed to analyse and anticipate consequences.
Rethinking schematic visions of the world is a long but necessary process if we want to arrive at a ‘re-discussion’ to get out of the one-size-fits-all logic of judgement that leaves no space between who is wrong and who is right. And it is as necessary as ever to ‘re-categorise’, thinking of oneself and others not as people of a particular country, but as human beings. Discounting what is happening in the Middle East, it would be even better to ‘decategorise’, not to fall into the stereotype that Palestinians are Hamas.
The automatic and implicit aspects of stereotypes unfortunately run rampant in the media and social media and even enter into artificial intelligence representations. All too dangerous.
(riproduzione autorizzata citando la fonte)