(Marco Emanuele)
Abbiamo l’impressione che, di fronte al bombardamento di un ospedale, le nostre parole siano vuote. E forse è così.
La guerra è guerra, nessun pensiero oltre. La guerra è eterno presente, in questo caso con un elemento chiarissimo e ben poco complesso: la vendetta reciproca. Ciò che sappiamo è ciò che vediamo. Sono due cose: la prima, l’oltraggio alle popolazioni, palestinese e israeliana; la seconda, l’allargamento del conflitto che nessuna visita di nessun Presidente americano potrà mai evitare. Si tratta di un allargamento, nel profondo sociale, che attenta la nostra convinzione occidentale di essere al riparo dalla complessità di guerre lontane. Ma, in realtà, vicinissime.
Sul primo punto, l’oltraggio alle popolazioni palestinese e israeliana, si è detto molto. Perché, al di là di vaneggianti e ridicole teorie del complotto, quelle popolazioni dovrebbero essere destinate all’odio e a vivere una eterna sospensione e/o la condizione di massa in una piccola striscia di terra che ha il record mondiale di più alta densità abitativa ? Dobbiamo insistere sul punto delle popolazioni: al di là dei governi, delle autorità, degli interessi geopolitici, il destino di quelle donne e di quegli uomini, qualunque sia la loro appartenenza politica e religiosa, è scritto: ma non da loro.
Ben meno visibile è la violenza banale che esonda dall’area del conflitto e che arriva fino a noi. Le ben poco resilienti democrazie occidentali si trovano a dover fronteggiare l’imprevedibile, a dover alzare i livelli di sicurezza, a buttare avanti lo Stato-di-diritto rispetto alla barbarie. Se, senza alcun dubbio, le regole democratiche vanno salvaguardate e rafforzate, ci duole dire che la violenza che rischiamo di vedere sulle nostre strade ha una natura che non può essere compresa e limitata attraverso le pur necessarie iniziative delle istituzioni di sicurezza. Per essere ancora più chiari, non è militarizzando le città che si risolverà il problema. La soluzione, forse, è altrove, in un lavoro profondo che non si è mai voluto davvero affrontare: un lavoro di mediazione e di coinvolgimento per costruire, dal basso, una resilienza in democrazie-in-trasformazione. Non ci voleva la ri-esplosione del conflitto israelo-palestinese per capirlo.
Se occorre sventare il rafforzamento delle reti criminali e colpire chi si muove nell’area grigia dell’azione violenta, la nostra riflessione si colloca sul piano del ri-pensamento complesso e complessivo del nostro stare insieme. Non possiamo aspettare l’esplosione del prossimo conflitto per iniziare a pensarci. Così come, culturalmente parlando (e su questo l’informazione ha una responsabilità fortissima), non possiamo continuare a vivere di stereotipi (isrealiano-guerrafondaio / palestinese-terrorista) e a evocare ‘scontri di civiltà’: solo l’evocarli, infatti, crea tensione ed esalta posizioni estremistiche.
E’ un momento molto delicato. Occorre fare i conti con il fiume carsico che sta percorrendo la geopolitica. Un fiume che arriva fino a noi e le cui conseguenze, come il male banale, non possiamo prevedere fino in fondo.
(English version)
We have the impression that, faced with the bombing of a hospital, our words are empty. And perhaps they are.
War is war, no thought beyond. War is eternal present, in this case with a very clear and very uncomplicated element: mutual revenge. What we know is what we see. Two things: first, the outrage against the peoples, Palestinian and Israeli; second, the widening of the conflict that no visit by any American president can ever prevent. It is a widening, in the social depths, that undermines our Western belief that we are shielded from the complexities of distant wars. But, in reality, very close.
On the first point, the outrage against the Palestinian and Israeli populations, much has been said. Why, beyond vain and ridiculous conspiracy theories, should those populations be destined to hate and live an eternal suspension and/or mass condition in a small strip of land that holds the world record for the highest population density? We must insist on the populations’ point: beyond governments, authorities, geopolitical interests, the destiny of those women and men, whatever their political and religious affiliation, is written: but not by them.
Far less visible is the banal violence that overflows from the area of conflict and reaches us. The very little resilient Western democracies find themselves having to cope with the unpredictable, having to raise security levels, to throw the rule-of-law ahead of barbarism. While, without a doubt, democratic rules must be safeguarded and strengthened, it pains us to say that the violence we risk seeing on our streets has a nature that cannot be understood and limited through the necessary initiatives of security institutions. To be even clearer, it is not by militarising cities that the problem will be solved. The solution, perhaps, lies elsewhere, in a deep work that has never really been addressed: a work of mediation and involvement to build, from below, a resilience in democracies-in-transformation. It did not take the re-explosion of the Israeli-Palestinian conflict to understand this.
If we need to foil the strengthening of criminal networks and hit those who move in the grey area of violent action, our reflection is on the level of a complex and comprehensive re-thinking of our being together. We cannot wait for the explosion of the next conflict to start thinking about it. Just as, culturally speaking (and information has a very strong responsibility here), we cannot continue to live by stereotypes (Isrealian-war-monger/Palestinian-terrorist) and to evoke ‘clashes of civilisations’: just evoking them creates tension and exalts extremist positions.
It is a very delicate moment. We have to reckon with the karst river that is running through geopolitics. A river that reaches us and whose consequences, like banal evil, we cannot fully foresee.
(riproduzione autorizzata citando la fonte)