(Marzia Giglioli)
Disegnare il presente ed il passato senza sconti, ma serve anche uscire dalla gabbia delle parole. Una delle più difficili è colonialismo, uno stigma odioso (quello storico) e ancora più odioso quello concettuale (ancora presente) che è più strisciante e perennemente settario.
Nessuna distinzione di epoche per ogni forma di colonialismo sia ante che post, dove anche le sfumature devono essere cancellate. Lo sguardo è rivolto a fatti di oggi e a quanto rimane ancora. La cancel culture deve valere per il presente e per il passato.
Ogni attualizzazione è pericolosa se usata strumentalmente.
‘Il colonialismo estrapolato dal contesto storico, per trasferirsi di peso nel nostro tempo, senza troppi distinguo diventa strumento per confondere’, ha scritto in una nota di analisi l’Istituto di Ricerca Eurispes.
Un abito per tutte le stagioni della polemica, quando invece andrebbe inquadrato in modo severo, senza attenuanti e con la critica più spietata senza generalizzazioni.
La critica contemporanea ha bisogno di elaborare correttamente e compiutamente i sensi di colpa tra Occidente e Sud del Mondo ma stando attenti a decifrare anche il colonialismo economico dei nuovi ‘attori’.
Il colonialismo diventa altrimenti un manganello perenne e i soggetti, esaminati con uno sguardo contemporaneo, non ne escono mai indenni, il loro destino è segnato come portatori di uno stigma indelebile e vergognoso.
Il vero dialogo, quello per la distensione, ha bisogno di un paradigma diverso e di una nuova storia delle parole.
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