Per un ‘nuovo umanesimo’. Il nostro impegno / For a ‘new humanism’. Our commitment

(Marco Emanuele)

La ricerca/costruzione della pace (tema che si lega indissolubilmente allo sviluppo sostenibile e alla giustizia), il ‘noi’ nella rivoluzione tecnologica e il governo della policrisi nella quale siamo immersi sono i tre ambiti nei quali intendiamo condurre il nostro lavoro per un ‘nuovo umanesimo’. Il tutto è percorso dal pensiero complesso, approccio decisivo e necessario per ri-trovarci nel futuro già presente (l’oltre della condizione umana).

Gli ambiti sopra evidenziati sono inseparabili e si alimentano reciprocamente, facce dello stesso mosaico, in profonda relazione. La pace, il ‘noi’ nella rivoluzione tecnologica e il governo della policrisi ‘camminano’ insieme nei ‘segni dei tempi’. Il mondo che viviamo, infatti, è attraversato da una radicale ricomposizione dei poteri che agisce nella grande trasformazione che ci attraversa interiormente e nella convivenza con ogni altro e con il pianeta.

Scrivere di ‘nuovo umanesimo’ significa, anzitutto, calare la condizione umana nel mondo-che-diventa. Solo così, infatti, potremo scoprire come illuminare e cercare di risolvere i nodi irrisolti che ci portiamo dentro e che contribuiscono a far generare, o a far de-generare, la realtà. Alcuni di questi nodi sono forse irrisolvibili, come la persistenza della guerra. Se il conflitto ci appartiene, ed è cosa buona perché riguarda il confronto tra differenti umani, ci appartiene anche la guerra, ormai ibrida e ‘combattuta’ in modi sempre diversi. La guerra è esasperazione e radicalizzazione di conflitti portati oltre la misura del confronto. La guerra è compresa nel macro-ambito della violenza che ciclicamente torna tra noi e si materializza in varie forme: antisemitismo, femminicidi, crescenti disuguaglianze, ingiustizia climatica e così via.

E’ forse sbagliato parlare di ‘tempi bui’ perché, se le tenebre della de-generazione sono molto profonde, la luce della generatività (soprattutto tecnologica) illumina tutto oltre misura. Viviamo tempi ‘in penombra’ nei quali si sfidano la luce perenne dell’innovazione e la caduta dell’umano nei suoi buchi neri, peraltro antichi. Un amico, diplomatico di lungo corso, ha recentemente detto – in un colloquio informale – che immaginare scenari è necessario ma che occorre pensarli mantenendo accesa la fiamma della speranza. Convidiamo ed è per questo che avviamo una ricerca nei percorsi di un ‘nuovo umanesimo’: pensiamo, infatti, che l’umanità, dunque ciascuno di noi, abbia le capacità per definire, mai compiutamente, un panorama di convivenza e di sostenibilità nel terzo millennio della condizione umana.

Mai compiutamente

Ci soffermiamo su questa espressione perché dobbiamo sempre ricordare di essere umani e che purezza e perfezione non ci riguardano. E’ sempre presente, in noi, la tentazione di voler separare i mondi facendo competere culture e religioni per imporre verità partigiane, interpretate e perpetrate come dogmi indiscutibili. Ciò avviene a partire dalle identità.

‘Mai compiutamente’ significa che dobbiamo tenere sempre aperta la porta alla complessità, nostro elemento fondamentale e fondante, non in termini di appartenenza ma di relazione. Se ciascuno è parte di un mosaico più grande, planetario, nessuno può dirsi ‘compiutamente’ definito perché vivere è un progress, è respirare le contraddizioni, mai negandole. Eppure, se guardiamo le cronache di realtà, tutto sembra andare – per nostra responsabilità – in direzione ostinatamente contraria. Esistiamo dentro una corsa senza fine nel porre e imporre modelli, più o meno attrattivi, ma non riflettiamo nella Storia in termini di processo. E’ questo il punto dolens del nostro (non) essere soggetti storici, in tal senso irresponsabili, e della (in)capacità delle classi dirigenti di affrontare il futuro già presente.

Il ‘mai compiutamente’ trasforma le nostre certezze ed è su questo punto che molti ‘frenano’ e limitano il proprio impegno a un ‘non nel mio cortile’. Se ci consideriamo compiuti, infatti, non possiamo che stare in difesa: non possiamo che immunizzarci, sempre più oltre misura, rispetto ai nemici esterni, a chi/cosa vorrebbe valicare i nostri confini, entrarci in casa, stravolgerci la vita.

Comprendiamo le paure e il disagio diffusi. Siamo consapevoli che molte persone non riescono a capire i ‘grandi giochi’ di potere che si sviluppano sopra le loro teste, al di là delle loro vite quotidiane: ma quelle scelte, quei giochi strategici non vivono in un altro mondo e condizionano, a volte molto pesantemente, la possibilità di vivere normalmente, di poter avere un lavoro, una famiglia: insomma, ciò che tutti cerchiamo.

In tale contesto, le classi dirigenti non dovrebbero limitarsi a ‘calvalcare’ gli umori popolari negativi (ribadiamo, legittimi e comprensibili) ma dovrebbero impegnarsi nell’accompagnare la transizione non più eludibile verso la sostenibilità sistemica. Il mondo non è sommatoria di certezze non discutibili e non può essere governato attraverso paradigmi che si riferiscono a un mondo che non c’è più. 

(continua …)

(English version) 

The research/building of peace (a theme that is inextricably linked to sustainable development and justice), the ‘us’ in the technological revolution and the government of the polycrisis in which we are immersed are the three areas in which we intend to conduct our work for a ‘ new humanism’. Everything is traversed by complex thinking, a decisive and necessary approach to re-find ourselves in the already present future (the beyond of the human condition).

The areas highlighted above are inseparable and feed on each other, faces of the same mosaic, in profound relationship. Peace, the ‘us’ in the technological revolution and the government of the polycrisis ‘walk’ together in the ‘signs of the times’. The world we live in, in fact, is crossed by a radical recomposition of powers that acts in the great transformation that passes through us internally and in coexistence with everyone else and with the planet.

Writing about ‘new humanism’ means, first of all, lowering the human condition into the world-that-becomes. Only in this way, in fact, will we be able to discover how to illuminate and try to resolve the unresolved issues that we carry within us and which contribute to generating, or de-generating, reality. Some of these issues are perhaps unsolvable, such as the persistence of the war. If conflict belongs to us, and it is a good thing because it concerns the confrontation between different humans, war also belongs to us, now hybrid and ‘fought’ in ever different ways. War is the exasperation and radicalization of conflicts taken beyond the limits of confrontation. War is included in the macro-scope of violence that cyclically returns among us and materializes in various forms: anti-Semitism, feminicides, growing inequalities, climate injustice and so on.

It is perhaps wrong to talk about ‘dark times’ because, if the darkness of de-generation is very deep, the light of generativity (especially technological) illuminates everything beyond measure. We live in times ‘in the shadows’ in which the perennial light of innovation and the fall of humanity into its ancient black holes challenge each other. A friend, a long-time diplomat, recently said – in an informal conversation – that imagining scenarios is necessary but that it is necessary to think about them while keeping the flame of hope alive. We agree and this is why we are starting research into the paths of a ‘new humanism’: we think, in fact, that humanity, therefore each of us, has the ability to define, never fully, a panorama of coexistence and sustainability in the third millennium of the human condition.

Never completely

We focus on this expression because we must always remember that we are human and that purity and perfection do not concern us. The temptation to want to separate worlds by making cultures and religions compete to impose partisan truths, interpreted and perpetrated as indisputable dogmas, is always present within us. This happens starting from identities.

‘Never completely’ means that we must always keep the door open to complexity, our fundamental and founding element, not in terms of belonging but of relationship. If everyone is part of a larger, planetary mosaic, no one can say he/she are ‘completely’ defined because living is progress, breathing the contradictions, never denying them. Yet, if we look at the reality news, everything seems to be going – due to our (ir)responsibility – in a stubbornly opposite direction. We exist in an endless race to pose and impose models, more or less attractive, but we do not reflect on History in terms of process. This is the painful point of our (not) being historical subjects, irresponsible in this sense, and of the (in)ability of the ruling classes to face the future that is already present.

The ‘never completely’ transforms our certainties and it is on this point that many ‘brake’ and limit their commitment to a ‘not in my backyard’. If we consider ourselves accomplished, in fact, we only be on defense: we immunize ourselves, increasingly beyond measure, with respect to external enemies, to those/whatever would like to cross our borders, enter our homes, and turn our lives upside down.

We understand the widespread fears and discomfort. We are aware that many people cannot understand the ‘great games’ of power that develop above their heads, beyond their daily lives: but those choices, those strategic games do not live in another world and sometimes influence very heavily, the possibility of living normally, of being able to have a job, a family: in short, what we are all looking for.

In this context, the ruling classes should not limit themselves to ‘riding over’ negative popular moods (we repeat, legitimate and understandable) but should commit themselves to accompanying the no longer avoidable transition towards systemic sustainability. The world is not the sum of non-questionable certainties and cannot be governed through paradigms that refer to a world that no longer exists.

(to be continued …) 

 

 

 

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