(Marco Emanuele)
Mentre, da un lato, il ‘900 continua in guerre drammaticamente lineari (con le conseguenze in tutti gli ambiti delle nostre vite, dal locale al globale), dall’altro lato il terzo millennio (rivoluzione tecnologica) trasforma i rapporti di potere. Si tratta di mondi che non dialogano, ma compresenti. A essere sacrificata è la pace, processo storico di convivenza tra differenze, mediazione e visione, cammino nell’oltre. Per noi la pace è la condizione indispensabile per vivere il e nel futuro già presente.
La separazione tra i mondi del progresso e del regresso, ovvero l’incapacità di tenerli insieme con pensiero complesso, è il nostro trauma più grande. Il sacrificio della pace è laddove ci illudiamo, auto-ingannandoci, che si possa ‘fare la Storia’ restando da una parte o dall’altra, ‘sacerdoti’ laici di una parte senza visione d’insieme. Così evochiamo la pace come semplicistica assenza di guerra, esaltiamo o denigriamo l’intelligenza artificiale, neghiamo o rendiamo apocalittica la crisi climatica, e così via. Non c’è visione politica ma solo urla ben assestate: nulla nasce nel silenzio, nel profondo della riflessione geostrategica. E, altrettanto grave, abbiamo ‘ucciso’ il realismo.
L’era Kissinger, della stabilità a ogni costo anche attraverso la destabilizzazione, è finita. Ma molte classi dirigenti, ostinatamente, continuano a costituire blocchi contrapposti, a non rendersi conto che realismo complesso chiede nuove mediazioni per nuovi dialoghi: di fronte ai BRICS, solo a esempio, l’Occidente è ancora vittima del ‘noi contro di loro’. Il ‘nostro’ blocco, quello occidentale a cui apparteniamo (del quale non esaltiamo la presunta ‘unità’, talvolta tatticamente praticata), dopo la fine del mondo bipolare non ha mosso un passo in termini di auto-critica e di elaborazione di regole adeguate di governance per il mondo in trasformazione. Ma l’altro blocco, non certamente uniforme, non resta a guardare e si coordina.
L’intelligenza artificiale è entrata prepotente e ci mostra l’incosistenza dei nostri confini. Altrettanto, ci mostra quanto siamo stati superficiali – nei decenni precedenti – ad aprire indiscriminatamente le società nazionali ai flussi globali. Era inevitabile ? Nulla contro la globalizzazione, anzi, ma forse non siamo stati sufficientemente intelligenti. Ovvero, siamo stati – via nuova architettura globale inesistente – sostanzialmente a-visionari.
Oggi ci troviamo in mezzo tra due mondi separati. Come possiamo ri-pensare ciò che diventiamo ? La sfida è nel ‘nuovo Umanesimo’, la frontiera di senso che sappia ri-generare la pace che non riusciamo a trovare perché, anzitutto, non la ri-elaboriamo secondo complessità.
(English version)
While, on the one hand, the 20th century continues in dramatically linear wars (with consequences in all areas of our lives, from local to global), on the other hand, the third millennium (technological revolution) transforms power relations. These are worlds that do not dialogue, but are co-present. What is sacrificed is peace, a historical process of coexistence between differences, mediation and vision, a path into the beyond. For us, peace is the indispensable condition for living in the already present future.
The separation between the worlds of progress and regress, or the inability to hold them together with complex thinking, is our greatest trauma. The sacrifice of peace is where we self-deceiving ourselves that we can ‘make History’ by remaining on one side or on the other, lay ‘priests’ of one side without an overall vision. Thus we evoke peace as the simplistic absence of war, we exalt or denigrate artificial intelligence, we deny or make the climate crisis apocalyptic, and so on. There is no political vision but only well-aimed shouts: nothing is born in silence, in the depths of geostrategic reflection. And, equally serious, we have ‘killed’ realism.
The Kissinger era, of stability at all costs even through destabilization, is over. But many ruling classes, stubbornly, continue to form opposing blocs, not realizing that complex realism requires new mediations for new dialogues: faced with the BRICS, just as an example, the West is still a victim of ‘us against them’. ‘Our’ bloc, the Western one to which we belong (of which we do not exalt the alleged ‘unity’, sometimes tactically practiced), after the end of the bipolar world has not taken a step in terms of self-criticism and the development of adequate rules of governance for the transforming world. But the other block, certainly not uniform, does not stand by and coordinates.
Artificial intelligence has entered forcefully and shows us the inconsistency of our borders. Equally, it shows us how superficial we have been – in previous decades – to indiscriminately open national societies to global flows. Was it inevitable? Nothing against globalization, on the contrary, but perhaps we haven’t been intelligent enough. That is, we were – via non-existent new global architecture – essentially a-visionaries.
Today we find ourselves between two separate worlds. How can we re-think what we become? The challenge lies in the ‘new Humanism’, the frontier of meaning that can re-generate a peace that we cannot find because, first of all, we do not re-elaborate it according to complexity.
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