(Marco Emanuele)
Più le democrazie si pongono in difesa, chiudendosi in confini ormai anti-storici, più sono destinate a ‘svuotarsi’, a perdere generatività, a morire.
Se ‘noi democratici’ pensiamo di avere ancora qualcosa da dire, certamente non saremo ascoltati nell’insistere sulla separazione e su una competizione selvaggia. Abbiamo perso la grande occasione di ripensare il governo politico-strategico della globalizzazione dopo la fine dell’Unione Sovietica e oggi ci troviamo in un mondo particolarmente difficile: è il prezzo del ritiro democratico dalle mediazioni e dalla visione storica. La scelta lineare di non percorrere l’ ‘oltre’ ha rappresentato l’inizio di un ormai evidentissimo declino.
Tutti gli apparati statual-democratici sono in difesa. Paura del mondo-arena (nel quale si combatte ovunque, anche per nostra stessa mano, con l’imporsi di gigantesche crisi umanitarie), dell’innovazione tecnologica, della Cina, incapacità di pensare strategicamente sui grandi nodi del futuro già presente: la transizione climatica ed energetica (che si chiama transizione perché ‘deve accompagnarci’ verso …); le grandi migrazioni; le sfide alla salute globale; le crescenti disuguaglianze; le differenze demografiche (a esempio, tra Europa e Africa); la grande questione del debito; i nuovi rapporti e blocchi di potere (BRICS); lo sbilanciamento tra il potere degli Stati e quello delle grandi corporation … e così via.
Tutto questo, che rappresenta l’evidenza di un mondo in trasformazione, si scontra con l’insufficienza strategica degli Stati nazionali e con la progressiva burocratizzazione dei ‘modelli’ democratici. Siamo per una nuova ‘critica’ della Storia da operare con pensiero complesso e rifuggendo l’auto-inganno dell’appiattimento sull’esistente e dei fragili antagonismi.
(English version)
The more democracies put on the defensive, closing within anti-historical borders, the more they are destined to ’empty’ themselves, to lose generativity, to die.
If ‘we democrats’ think we still have something to say, we will certainly not be heard in insisting on separation and wild competition. We missed the great opportunity to rethink the political-strategic governance of globalization after the end of the Soviet Union and today we find ourselves in a particularly difficult world: it is the price of democratic withdrawal from mediations and historical vision. The linear choice not to go in the ‘beyond’ represented the beginning of a now very evident decline.
All the state-democratic apparatuses are on defense. Fear of the world-arena (in which we are fighting everywhere, even at our own hands, with the imposition of gigantic humanitarian crises), of technological innovation, of China, inability to think strategically on the great issues of the already present future: the climatic and energetic transition (which is called transition because it ‘must accompany us’ towards…); the great migrations; global health challenges; growing inequalities; demographic differences (for example, between Europe and Africa); the great question of debt; the new power relations and blocs (BRICS); the imbalance between the power of states and that of large corporations… and so on.
All this, which represents the evidence of a world in transformation, clashes with the strategic insufficiency of national states and the progressive bureaucratization of democratic ‘models’. We are for a new ‘critique’ of History to be operated with complex thinking and avoiding the self-deception of flattening out what exists and of fragile antagonisms.
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