(Marco Emanuele)
Scrivere di ‘strategia’ è operazione complessa perché tocca molte dinamiche inter-in-dipendenti, non solo non separabili l’una dall’altra ma vincolate l’una nell’altra.
Anzitutto, non può esservi strategia che non ponga al centro il fattore umano con tutte le sue contraddizioni. Stiamo cercando, nel nostro lavoro ‘in-strategy’, di definire dinamicamente un pensiero geostrategico. La strategia si forma nella vita e nei suoi ‘dove’ e capire cosa vive nel profondo dei mondi e del mondo è fondamentale per non limitare il discorso strategico ai fattori geopolitici.
In secondo luogo, occorre considerare come la strategia – nel contesto multipolare del mondo e dell’esperienza umana – per essere efficace debba essere sostenibile. Qui entra in gioco il corretto rapporto tra uomo, natura e tecnica (se ne è parlato, nei giorni scorsi, alla Pontificia Accademia di Scienze Sociali), laddove il pensiero tecnico (e gli strumenti sempre più avanzati delle tecnologie) sembra volersi distaccare dalle complessità dell’umano per dominarle e determinarle: complessità dell’umano che, abbiamo scritto, deve essere motore propulsore di qualsivoglia strategia sostenibile.
Capovolgere il rapporto tra uomo, natura e tecnica, ponendo quest’ultima al primo posto, inevitabilmente genera de-generazioni. E lo fa a vari livelli e in profondità: trasformando il capitalismo in senso deteriore (lasciando che si allarghi a dismisura la forbice tra i ricchi e i poveri ed erodendo le classi medie); spezzando le relazioni sociali; esacerbando le disuguaglianze in tutti gli ambiti; facendo de-generare la policrisi che ci attraversa, a cominciare da quella ambientale; lasciando continuare il pericolo circolo vizioso di ‘svuotamento’ delle democrazie; e, ultimo ma non ultimo, non accorgendosi dei ‘segni totalitari’ che percorrono le nostre società sotto forma di ‘violenza per la violenza’ (male banale).
Rispetto alle tecnologie (si pensi in particolare all’intelligenza artificiale), lo abbiamo scritto più volte, l’approccio non può che essere ‘tecno-realista’. Serve capacità strategica per capire che sia l’evoluzione che l’involuzione ci appartengono e che, dunque, tutto ciò che accade nasce in noi e dipende dal nostro agire. Non possiamo negare il corso del progresso: semmai possiamo contribuire a governarlo nell’interesse dell’umanità e del pianeta e non a esclusivo profitto dei produttori di AI.
In questa prospettiva, il fare strategia è lavoro di ri-costruzione. Lo è nel pensiero (ri-costituendo il giusto rapporto ‘uomo-natura-tecnica’); lo è nella convivenza (i nuovi termini dello stare insieme, pur mediati dalle tecnologie); lo è nel ri-pensamento dei luoghi (città, territori), spesso oltraggiati da violenze e da guerre e, sempre più spesso, da male banale, disagio diffuso, carenza o mancanza di relazioni umane e di senso comunitario.
Tra mediazioni e visioni, la sfida è aperta.
(English version)
Writing about ‘strategy’ is a complex operation because it touches upon many inter-in-dependent dynamics, which are not only inseparable from each other but are bound within each other.
First of all, there can be no strategy that does not place the human factor with all its contradictions at the centre. We are trying, in our ‘in-strategy’ work, to dynamically define geostrategic thinking. Strategy is formed in life and in its ‘where’, and understanding what lives in the depths of worlds and the world is crucial in order not to limit strategic discourse to geopolitical factors.
Secondly, we need to consider how strategy – in the multipolar context of the world and of the human experience – must be sustainable in order to be effective. On this point, the correct relationship between human, nature and technical thinking comes into play (this has been discussed in recent days at the Pontifical Academy of Social Sciences), where technical thinking (and the increasingly advanced tools of technology) seems to want to detach itself from the complexities of human in order to dominate and determine them: complexities of human which, we have written, must be the driving force behind any sustainable strategy.
Reversing the relationship between human, nature and technical thinking, putting the latter first, inevitably generates de-generations. And it does so at various levels and in depth: by transforming capitalism in a deterrent sense (allowing the gap between the rich and the poor to widen disproportionately and eroding the middle classes); by breaking up social relations; by exacerbating inequalities in all spheres; by de-generating the polycrisis that runs through us, starting with the environmental one; allowing the dangerous vicious circle of ’emptying’ of democracies to continue; and, last but not least, failing to notice the ‘totalitarian signs’ that run through our societies in the form of ‘violence for violence’s sake’ (the banal evil).
With respect to technologies (think in particular of artificial intelligence), we have written several times, the approach can only be ‘techno-realist’. We need strategic capacity to understand that both evolution and involution belong to us and that, therefore, everything that happens is born in us and depends on our actions. We cannot deny the course of progress: if anything, we can help to govern it in the interest of humanity and the planet and not for the sole benefit of AI producers.
In this perspective, strategy-making is re-construction work. It is so in thinking (re-constituting the right ‘human-nature-technical thinking’ relationship); it is so in coexistence (the new terms of being together, albeit mediated by technologies); it is so in re-thinking ‘where’ of living (cities, territories), often outraged by violence and wars and, increasingly often, by banal evil, widespread disease, lack or absence of human relations and community sense.
Between mediations and visions, the challenge is open.
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