Sospesi in ricerca (Marco Emanuele)

Sono così minacciose tutte le tecnologie del virtuale ? L’intero cammino verso l’intelligenza artificiale finirà per svalutare il valore della persona, riducendola a pura meccanica ? O, invece, saranno i valori dell’uomo a indurre la scienza ad aprire nuovi fronti grazie alle conquiste tecnologiche ? (Carlo Maria Martini, Le cattedre dei non credenti, 2015)

Una delle più grandi lezioni delle mie esperienze è che il ritorno della barbarie è sempre possibile. Nessuna acquisizione storica è irreversibile (Edgar Morin, Lezioni da un secolo di vita, 2021)

L’attenzione responsabile di tutti deve rivolgersi al mondo che stiamo costruendo. Consideriamo l’evoluzione della innovazione tecnologica, ed è importante dirlo fin da subito, il fattore che ha posto e continuerà a porre in metamorfosi ciò che siamo, le relazioni sociali, la politica internazionale.

La transizione nel processo che viene chiamato Quarta Rivoluzione Industriale, così come nella urgente e inevitabile transizione ecologica, è tutt’altro che neutra.

Un primo accenno sulla non neutralità della transizione che stiamo vivendo riguarda il mondo del lavoro: se, attraverso i due pilastri del recovery post-pandemia (trasformazione digitale e transizione ecologica), si creeranno nuovi lavori, come già avviene, molte persone non avranno le competenze e la forza per ricollocarsi nei nuovi settori (non si hanno venti o trent’anni tutta la vita e non basta dire “formazione permanente” per risolvere il problema). Altrettanto, nella necessità di conservare forme di sussidio pubblico per le fasce povere o che si ritrovano tali (ricordiamo l’impennata delle disuguaglianze, problema antico), non tutti coloro che sono in difficoltà accetterebbero nel medio-lungo termine una vita a spese dello Stato (senza trascurare il fatto che, siccome lo Stato siamo noi, sarebbe anche a spese nostre): il lavoro è dignità ed è soprattutto lavorando che si acquisisce rilevanza personale e sociale (riconoscimento).

Se ha senso, in una fase storica così delicata e in non pochi casi drammatica, un reddito universale di base, esso non può “sposarsi” con la fine del lavoro: se è vero che essere imprenditori di se stessi (frase parecchio utilizzata nell’era della gig economy e a “doppio taglio”) può aiutare a vivere meglio in termini di auto-organizzazione e di indipendenza, tale condizione non può essere posta come universale e valida per tutti. Altresì, per riconvertire i nostri sistemi, si è scelta la strada dell’aumento del debito: pur trattandosi di “debito buono”, cosa ne pensano le generazioni che dovranno pagarlo ?

In questo contesto di transizione bisogna rispettare le piazze della rabbia, nella stragrande maggioranza dei casi espressa in maniera pacifica, così come il mare sempre più esteso dell’astensionismo. La flessibilità necessaria nei tempi che viviamo, parecchio predicata, è troppo spesso praticata come precarietà. Molti, e non solo chi subisce la precarietà, notano questa deriva pericolosa. Riteniamo che le piazze (qualunque sia il tema preso a prestito) rappresentino una legittima voglia di riconoscimento. Allo stesso modo, chi si astiene dal voto vuole lanciare un messaggio ai “politici”: noi ci siamo, siamo qui, siamo coloro che vi permettono di sedere nelle istituzioni. Questo bisogno di riconoscimento è decisivo in democrazia ed è la parte non visibile (finché non diventa rabbia espressa nelle piazze o non voto espresso alle elezioni) della nostra convivenza: è ciò che non possiamo codificare o misurare ma c’è e agisce nel profondo. L’astensionismo, naturalmente, erode la qualità della democrazia: chi rappresentano gli eletti ?

Qualcuno crede veramente che i mega-summit in stile G20, e altri, possano cogliere e risolvere le profonde implicazioni date dalle velocissime e radicali trasformazioni della realtà ? Il loro sguardo è troppo alto, a loro appartiene il “globalismo” e sembrano non interessare le complessità dei mondi che, contemporaneamente, evolvono e involvono (1).

Qui affrontiamo una questione che non può essere razionalizzata linearmente. La condizione umana, complessa e incerta, è un vaso di coccio tra i vasi di ferro rappresentati da tutto ciò che viene definito come risolutivo, prima di tutto la tecnologia come “spirito dei tempi”. Una tecnologia che, se è importante e in molti casi decisiva, non può essere trattata alla stregua di una fede religiosa, avulsa dalla realtà “carne e sangue” (2). La tecnologia è parte integrante del “fare umano”, come sostiene Cabitza (2021) (3). L’uomo è al centro, sempre, nel bene e nel male.

Concordiamo con Crawford (2021) che, scrivendo di intelligenza artificiale (machine learning), sostiene come essa sia fondamentalmente politica (4). Tale natura politica dell’IA, val bene ribadirlo, esiste nell’uso che l’uomo ne fa. Non tutto ciò che appartiene al “creato” può essere codificato in un algoritmo: occorre tornare, in sostanza, all’esercizio di responsabilità nelle complessità della vita-di-realtà.

L’aggettivo “politico” va qui letto in un doppio significato. Il primo è dell’innovazione come tassello del mosaico dell’attività umana, che nasce in ciascuno di noi. Parlare di tecnologia come di un’attività che non ci riguarda è profondamente sbagliato perché l’innovazione, il guardare oltre, il ri-creare realtà è qualcosa che da sempre appartiene alla vita umana. Negare questo significherebbe negare non tanto la natura politica, progettuale, dell’uso della tecnologia quanto la natura politica di ogni uomo (siamo soggetti storici o soggetti alla storia ?).

Per quanto riguarda il secondo significato dell’aggettivo politico, non vi è dubbio che, attraverso le tecnologie, si sviluppi un vero potere e che l’uso delle tecnologie ponga in metamorfosi il potere classicamente inteso. Crawford (2021) scrive dell’impulso colonizzatore che colloca il potere al centro del campo dell’IA: determina in quale modo il mondo viene misurato e definito e allo stesso tempo nega che questa sia un’attività intrinsecamente politica.(5). Questa negazione è il riconoscimento che la natura politica dell’IA c’è, ed è del tutto umana, sulla base di paradigmi (umani) che superano quelli della politica che conosciamo e li sostituiscono con altri (sempre umani).

Invochiamo il pensiero critico: se il pensiero lineare si limita a seguire la realtà superficialmente e in termini causali, di fatto abdicando a pensare, il pensiero antagonista fa il gioco dell’ “avversario” che vorrebbe contrastare. Ci vuole pensiero critico per analizzare fenomeni come, a esempio, quello del legame crescente tra autorità dello Stato e innovazione tecnologica: quel legame, che forma gli Stati tecnocratici (autoritarismi di fatto, Cina e Russia docet) non è forse gemello di quello che tiene insieme autorità statuale e religione negli Stati teocratici ?

Se, come alcuni sostengono, siamo dentro una palingenesi, se la pandemia può essere utilizzata come occasione per immaginare e costruire nuovi paradigmi e percorsi esistenziali a opera di una élite di “sapienti illuminati”, cosa ne è della nostra responsabilità ?

Preso atto che l’innovazione tecnologica è la cifra del nostro tempo, è possibile ri-connettere innovazione e convivenza ? Riteniamo di sì perché la tecnologia non nasce fuori di noi ma appartiene al nostro bisogno e alla nostra volontà di essere-di-più, pienamente.

L’innovazione nasce nelle e dalle nostre tradizioni che, se vanno aggiornate, non possono essere cancellate. L’identità è un dato ineliminabile anche se è un pericolo considerarla come fissa e immutabile: occorre, à la Morin, viverla come plurima, una e molteplice (6). In sostanza, vivere l’innovazione significa vivere le tradizioni dinamicamente come processo umano che-si-fa. Operare mediazioni tra innovazioni e tradizioni è un tema strategico del nostro tempo: perché la progettualità nasce integrando ciò che siamo stati in ciò che saremo e questo, oltre ad aprirci a futuri inattesi, genera conflitti.

Cerchiamo e creiamo la tecnologia per implementare la nostra intelligenza: da quando esiste l’umanità, è del tutto normale. Altra cosa è prendere atto che sempre altri esseri umani (una piccola minoranza), attraverso il potere dato loro dalla produzione di tecnologie emergenti e “disruptive”, contribuiscono a delineare forme di controllo di massa spesso agite in modo apparentemente non invasivo, sotterraneo, di risposta a bisogni sempre crescenti (e indotti) dell’uomo stesso. Altro aspetto da considerare è – come si diceva prima – quando il potere politico-istituzionale si somma a quello tecnologico in regimi autoritari che non considerano come loro priorità le libertà e i diritti dei cittadini. Si pensi, solo a esempio, a quanto scrive Crawford (2021) sul fatto delle profonde interconnessioni tra il settore tecnologico e quello militare che sono attualmente al servizio di una agenda politica fortemente nazionalista.(7) E’ o non è politico tutto questo ?

Nella realtà sospesa tra questioni globali, grandi summit, innovazione accelerata, da un lato, questioni sociali sempre più profonde e “svuotamenti” democratici, dall’altro, urge – a nostro giudizio – ri-trovare (trovare continuamente) prossimità e partecipazione (parole da ri-pensare). Se servono politiche adeguate nella transizione da un mondo a un altro, diverse in ogni realtà date le complessità di ogni contesto, lavorare nella prossimità e nella partecipazione significa accogliere in un rinnovato pensare/agire politico ciò che è informale e non misurabile ma del tutto sostanziale (dentro, e al di là, di ciò che è codificato e misurabile) (8). Non solo scrivo di pensiero critico ma anche di pensiero complesso.

La complessità riguarda anzitutto ogni essere umano, ciascuno di noi. Occorre affrontare, vivendo la scommessa dell’essere umano nella grande metamorfosi che produciamo e nella quale siamo immersi, l’ambivalenza in noi stessi, con gli altri e nella realtà che contribuiamo a modellare (9). La realtà è il nostro specchio, anche se (ce) lo neghiamo quando analizziamo fenomeni brutali che toccano le corde sensibili e profonde del nostro sentimento umano. In ogni fenomeno di realtà, esattamente come in ciascuno di noi, bene e male si com-penetrano. L’umano non è né buono né cattivo, è complesso e versatile, scrive Morin (2021) (10).

Siamo sospesi in ricerca. Il che non significa dire che siamo precari, anzi. Significa, semmai, prendere atto che mai siamo compiuti, definitivamente realizzati. Ogni nostra vita è un cammino e, se possiamo auspicare una direzione, altrettanto non siamo certi che essa si compirà. Il nostro tempo ci mostra quante dinamiche interagiscano, si rafforzino e si annullino in un processo sempre più accelerato (11).

Dicevamo del pensiero critico. Necessario per non bloccare il processo virtuoso di ricerca, il pensiero critico parte dall’assunto della realtà-in-noi. Se noi apparteniamo alla realtà e la realtà ci appartiene, il pensiero critico è, anzitutto, pensiero auto-critico. Occuparci della realtà è occuparci di noi. Qui torna, con tutta evidenza, il tema della responsabilità.

Essere sospesi in ricerca è una condizione nobile perché significa operare progressivamente la ri-congiunzione in noi della realtà. Il pensiero antagonista, quello che separa nettamente “noi buoni” da “loro cattivi”, è frutto del pensiero separante. Alzando il livello dello scontro tra identità assolutizzate abbiamo progressivamente scavato solchi profondissimi tra noi e gli altri, tra la nostra e le altrui civiltà, tra la nostra e le altrui etnie. Così facendo, a trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, ci ritroviamo in un mondo pieno di muri culturali e fisici: l’ottimismo di allora si è frantumato lungo le strade impervie della storia.

Dobbiamo accogliere l’essere sospesi in ricerca come lo stato naturale dell’umanità-in-cammino. In ogni istante, infatti, siamo chiamati a vivere il “vincolo” che ci lega a ogni altro e alla realtà nel suo complesso. Con la responsabilità, ecco la libertà. Sembrerà strano a qualcuno ma la libertà è proprio nel vincolo dell’inter-in-dipendenza: siamo liberi se siamo dipendenti, tutt’uno del/nel tutto-di-realtà.

Così, liberi nell’inter-in-dipendenza, possiamo conoscere. Nella realtà, e progressivamente dobbiamo esserne consapevoli, siamo chiamati responsabilmente a conoscere vivendo il vincolo che ci rende liberi: è prendere atto che siamo parte di un destino planetario che ci comprende e che contribuiamo a formare. Questa prospettiva progettuale, di unità nella diversità e di diversità nell’unità, non elimina il conflitto ma valorizza le differenze cercando sintesi continue di mediazione e di dialogo.

Ci muoviamo tra opportunità e rischi, tra prevedibilità e imprevedibilità, nell’imprevisto: la vita è questo e, nella vita, contribuiamo a ri-creare la realtà, innovando (12).

Abbiamo cercato, negli ultimi trent’anni, di cancellare la nostra natura sospesa, aperta all’imprevisto e all’errore (13), cercando di costruire un mondo a misura di certezze assolutizzate. Non abbiamo più maturato visioni progettuali, limitandoci a dichiararci favorevoli alla “storia di qualcuno” spacciata come universale o ponendoci contro di essa in maniera antagonistica. In questo abbiamo progressivamente separato il mondo tra asse del bene e asse del male esacerbando il naturale conflitto tra differenze nell’arena globalizzata che, se da una parte ha contribuito ad “aprire” il mondo e il nostro destino, dall’altra ha portato il rischio dell’appiattimento e della omologazione delle culture su un’unica cultura.

Il contenuto della nostra ricerca è la maturazione di un giudizio storico sulla realtà in evoluzione. Qui si vuole uscire dalla logica narrazione/contro-narrazione e concentrarsi nella profondità e nella inter-in-dipendenza dei processi storici. In questo primo contributo sono emersi alcuni temi e altri, nel corso di una riflessione aperta, emergeranno e s’imporranno. Non possiamo prevederlo ora e neppure blindare la ricerca in uno schema pre-determinato.

Il giudizio storico è dinamico. Ci domandiamo, tornando all’inizio, quale mondo stiamo costruendo. E lo facciamo con tre categorie per noi decisive: la transdisciplinarità (nessuna singola disciplina può spiegare il Tutto); la transgenerazionalità (nessun contributo può andare perduto e ogni età garantisce visioni preziose, dalla passione all’esperienza e ritorno); una ragione aperta e a-dogmatica.

Ci muoviamo nel giudizio storico con un monito chiaro di Morin (2021), che condividiamo: La storia umana è relativamente intellegibile a posteriori, ma sempre imprevedibile a priori (14).

Abbiamo bisogno di lavorare in un “progetto di civiltà”, nutrendoci di giudizio storico come l’attività umana che alimenta prospettive sistemiche di senso e di significato per l’azione. La sistematicità è decisiva perché le dinamiche storiche, le grandi sfide e le possibili soluzioni sono profondamente interrelate. Solo uno sguardo critico, complesso e “incarnato” in ogni realtà e nella realtà planetaria può aiutarci.

Tentare di fare tutto questo attraverso l’occhio della innovazione tecnologica è una sfida-nella-sfida.

Note:

  1. Edgar Morin, Lezioni da un secolo di vita, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI), 2021, pp.118.119: Ciò che mi è parso sempre più chiaramente con il tempo è che, nell’universo fisico e biologico, le forze di associazione e di unione si combinano con quelle di dispersione e di distruzione.

  2. Kate Crawford, Né intelligente né artificiale. Il lato oscuro dell’IA, il Mulino, Bologna 2021, p.16: (…) l’IA è insieme pratiche tecniche e sociali, istituzioni e infrastrutture, politica e cultura. La ragione computazionale e il lavoro incarnato sono profondamente interconnessi: i sistemi di IA riflettono e producono relazioni sociali e comprensioni del mondo.

  3. Federico Cabitza in Luciano Floridi, Federico Cabitza, Intelligenza artificiale. L’uso delle nuove macchine, Bompiani, Firenze-Milano 2021, p.15. Concordiamo in pieno con l’Autore (op.cit., p.34) quando scrive: Spostare l’intelligenza della IA fuori da se stessa, cioè fuori dai propri codici o algoritmi, per riconoscerla dentro ai compiti in cui è coinvolta, è una mossa apparentemente da poco, ma in realtà decisiva.

  4. Kate Crawford, op.cit., p.17: Per capire come l’IA sia fondamentalmente politica, dobbiamo andare oltre le reti neurali e il riconoscimento di modelli (pattern recognition) per chiederci invece che cosa viene ottimizzato, per chi e chi è che decide. Crawford (op. cit., p.26) delinea perfettamente la “concretezza politica” dell’IA: L’intelligenza artificiale può sembrare una forza spettrale, come un calcolo disincarnato ma questi sistemi sono tutt’altro che astratti. Sono infrastrutture fisiche che stanno rimodellando la Terra, modificando contemporaneamente il modo in cui vediamo e comprendiamo il mondo.

  5. Kate Crawford, op.cit., p.19. Continua l’Autrice (op.cit., p.19): (…) possiamo comprendere meglio il ruolo dell’IA nel mondo cercando di conoscere le sue architetture materiali, i suoi ambienti contestuali e le sue politiche prevalenti, tracciandone i reciproci collegamenti. Crawford, nello spiegare il senso del libro, sottolinea la natura politica dell’IA con queste parole (op.cit., p.20): Si tratta (…) di una visione più ampia dell’intelligenza artificiale vista come industria estrattiva. La creazione dei sistemi di IA attuali è strettamente legata allo sfruttamento di risorse energetiche e minerarie del pianeta, di manodopera a basso costo e di dati su amplissima scala.

  6. Edgar Morin, op.cit., p.36: Il rifiuto di un’identità monolitica o riduttiva, la coscienza dell’unità/molteplicità (unitas multiplex) dell’identità, sono delle necessità di igiene mentale per migliorare le relazioni umane.

  7. Kate Crawford, op.cit., p.24. Continua l’Autrice (op.cit., p.25): Le logiche militari che hanno modellato i sistemi di IA fanno ora parte delle pratiche lavorative delle amministrazioni locali e stanno ulteriormente distorcendo le relazioni tra stati e individui.

  8. Edgar Morin, op.cit., p.62: La degradazione della qualità della vita risulta dal primato del quantitativo nell’organizzazione della nostra società, quindi delle nostre vite, in cui il calcolo tratta come oggetto misurabile tutto ciò che è umano e, cieco, a tutto ciò che è individuale, soggettivo e passionale, vede solo il PIL, statistiche, sondaggi crescita economica.

  9. Mauro Ceruti, prefazione a Edgar Morin, op.cit., p.12, scrive della scommessa di Morin: La sua scommessa è una scommessa sull’uomo, sulla scienza, sulla ragione, che gli fa comprendere che è necessario agire nell’incertezza e nel rischio che corrono tutti i nostri valori, e che lo porta a riconoscersi nella “religione di ciò che lega”, nella religione di fraternità che appunto “implica un’inevitabile scommessa sull’uomo”, nutrita dall’”attaccamento indefettibile alla razionalità” e dalla “coscienza del grande Mistero in cui sfocia la più grande conoscenza”. Il racconto che emerge dalle lezioni di un secolo di vita non è però quello di una fratenità irenica o idealizzata. La fraternità non può essere imposta da norme, come in qualche misura possono esserlo la libertà e l’uguaglianza. La sua fonte, riflette, non può che essere nel bisogno dell’”io”, che per fiorire ha bisogno di un “noi” e di un “tu”. Ma questo bisogno insopprimibile non toglie che l’ambivalenza segni costantemente la fraternità. Scrive Morin (op.cit., p.78): (…) il substrato di razionalità che si trova in sapiens, faber, oeconomicus, costituisce solo un polo di ciò che è umano (individuo, società, storia), mentre appaiono per importanza quantomeno uguale la passione, la fede, il mito, l’illusione, il delirio, il gioco.

  10. Edgar Morin, op.cit, p. 82

  11. Edgar Morin, op.cit., p.36: Sono il prodotto di eventi e di incontri improbabili, aleatori, ambivalenti, sorprendenti, inattesi. E nello stesso tempo sono Me stesso, individuo concreto, dotato di una macchina ipercomplessa auto-eco-organizzatrice che è il mio organismo, macchina non banale, capace di rispondere all’inatteso e di creare dell’inatteso. Il cervello dà a ciascuno la mente e l’anima, invisibili al neuroscienziato che analizza il cervello, ma emergenti in ogni umano nella sua relazione con l’altro e con il mondo.

  12. Edgar Morin, op.cit., p.48: La vita per ogni essere umano è a partire dalla nascita imprevedibile, poiché nessuno sa cosa ne sarà della sua vita affettiva, della sua salute, del suo lavoro, delle sue scelte politiche, della durata della sua vita, dell’ora della sua morte. Ciò che non dobbiamo mai dimenticare è che se siamo macchine, siamo soprattutto macchine non banali. La macchina banale è la macchina artificiale, quella che noi fabbrichiamo, della quale conosciamo il comportamento a partire dai programmi che la comandano. L’essere umano, invece, non agisce sempre in modo prevedibile, specialmente nella sua capacità di innovare, di creare e, tramite ciò, di apportare dell’inatteso. Continua l’Autore (op.cit., p.52): L’incertezza e l’inatteso devono essere integrati nella Storia umana. (…) La sorpresa dell’inatteso non deve essere anestetizzata. Essa deve al contrario stimolarci a comprenderlo, a pensarlo e a portarci, non a prevederlo, ma almeno ad aspettarselo.

  13. Edgar Morin, op.cit., p.122: (…) il rischio di errore e di illusione è permanente in ogni vita umana, personale, sociale, storica, in ogni decisione e azione, perfino in ogni astensione, e che può condurci a disastri. Continua l’Autore, op.cit., p. 126: La conoscenza non si costruisce senza il rischio di errore. Ma l’errore gioca un ruolo positivo quando è riconosciuto, analizzato e superato. “La mente scientifica si costituisce su un insieme di errori rettificati”, scriveva Bachelard. (…) L’errore è inseparabile dalla conoscenza umana poiché ogni conoscenza è una traduzione seguita da una ricostruzione.

  14. Edgar Morin, op.cit., p.129

Marco Emanuele
Marco Emanuele è appassionato di cultura della complessità, cultura della tecnologia e relazioni internazionali. Approfondisce il pensiero di Hannah Arendt, Edgar Morin, Raimon Panikkar. Marco ha insegnato Evoluzione della Democrazia e Totalitarismi, è l’editor di The Global Eye e scrive per The Science of Where Magazine. Marco Emanuele is passionate about complexity culture, technology culture and international relations. He delves into the thought of Hannah Arendt, Edgar Morin, Raimon Panikkar. He has taught Evolution of Democracy and Totalitarianisms. Marco is editor of The Global Eye and writes for The Science of Where Magazine.

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