Forse si è capito che, nel globalizzare e nell’aprire indiscriminatamente le società al mondo, si è corso troppo. Mentre dall’alto, pur nella persistenza di una competizione esasperata, nella megacrisi de-generativa in atto e nella guerra mondiale ‘a pezzi’, le diplomazie si parlano (per le inseparabili questioni di Terra e di Spazio e dentro la rivoluzione tecnologica), nel profondo delle comunità umane c’è grande disorientamento e altrettanto disagio. Il tema è ricostruire la speranza, fatto profondamente politico e che riguarda tutti, nessuno escluso: è proprio nell’utilizzare l’aggettivo politico che la questione va posta oltre la politica che conosciamo, in un oltre che ancora non vediamo ma che già ci riguarda.
Occorre, in questa fase storica, capire che il punto di svolta riguarda sia la nostra responsabilità personale che la formazione di classi dirigenti adeguate alle sfide che attraversano il mondo e ogni ‘nostro’ mondo. Non intendiamo fare valutazioni sulle persone, perché il problema esiste da diversi decenni e riguarda l’impostazione strutturale, ma sottolineare come l’insostenibilità sistemica sia il tema con il quale tutti ci dobbiamo confrontare.
Dovremmo interrogarci sulle visioni di ciò che siamo e di ciò che ci circonda e le domande dovrebbero riguardare il nostro ruolo nel mondo in un tempo nel quale siamo vincolati nel quadro del mosaico-mondo, inter-in-dipendente, nel quale la scelta strategica non dovrebbe più essere l’affollamento al centro del potere ma la ri-scoperta del respiro della storia nelle periferie esistenziali (che non sono necessariamente i luoghi della povertà e del disagio ma i luoghi dove scorre la vita vera). Solo così si potrà comprendere come le resistenze dei popoli invasi, oppressi e oltraggiati vadano sostenute (anche militarmente), senza oltrepassare il limite della volontà sempre più evidente di riarmo del mondo, e che la pace e la giustizia possono passare soltanto da una metanoia radicale che muove da una trasformazione del nostro pensiero-nel-mondo. Si tratta, in sostanza, di re-istituire la politica come arte complessa.
Siamo in un mondo nel quale, come scrivevamo, le scelte strategiche riguardano le tre dimensioni-in-una: intrapersonale, interpersonale, globale. Siccome il male ci riguarda, e vive in noi, dovremmo prendere atto che la violenza che vediamo scatenarsi ogni giorno assomiglia sempre di più al male banale, espressione del male-per-il-male, brutale vuoto di senso umano: questo male ha un nome, quello degli assassini (che vanno puniti con la certezza della pena), e vive in un clima di ricerca spasmodica di un successo dell’ego e della potenza della certezza e che si sfoga sui soggetti ritenuti più deboli, come le donne, gli emarginati, i popoli meno fortunati e quanti, nei Paesi più sviluppati, vengono ‘scartati’.
Notavamo come il più grande lavoro riguardi il sistema dell’educazione e della formazione. Alcune parole, che dobbiamo far diventare metodo-in-cammino, potranno fare la differenza: complessità, cooperazione, fraternità, mediazione, visione, limite. Sono parole che superano i sistemi costituiti e che ci portano, dovremmo auspicarlo tutti, verso maggiore equilibrio, equità e pace. Comunque la pensiamo, la sfida della ricostruzione della speranza è comune a tutti: non sconfiggeremo il male ma, forse, ci aiuteremo l’un l’altro a convivere.