Verso un progetto di civiltà, il nostro lavoro parte dalla e passa attraverso la ri-costruzione del “comune”. L’utilizzo delle tecnologie, in particolare di quelle che permettono un miglior governo dei territori e delle città (aiutando a comprendere e a gestire le crescenti complessità), è un fattore decisivo che deve essere posto al servizio della centralità della relazione.
Rimettere al centro la relazione significa ri-pensare completamente l’impianto della convivenza. Snodo del mosaico sociale è quel “tra” che rende possibile la coesione, al contempo considerando e superando le singole originalità. Ogni giorno la cronaca ci mette di fronte a casi di violenza e di sopraffazione (primo fra tutti la guerra) che mostrano quanto stia crescendo la voglia di superare i propri limiti, di vivere la propria libertà a prescindere da quella degli altri, di far prevalere l’autosufficienza dell”io. C’è bisogno di un progetto di civiltà perché urge ri-trovarsi dentro a un progetto comune, di comunità, nella relazione.
La questione sociale è sotto gli occhi di tutti e riguarda ciascuno di noi a prescindere dall’appartenenza partitica. Tale questione va considerata nel suo insieme perché tocca la sostenibilità complessiva dei nostri contesti di vita. La pandemia e la guerra in Ucraina hanno inciso e incidono pesantemente sul peggioramento di uno stato di cose che, già da prima, era particolarmente problematico.
La questione sociale ci chiama a un sussulto di responsabilità strategica. Il progetto di civiltà deve coltivare, nel “mentre” dei processi storici, la capacità di guardare nell’oltre. Non possiamo più pensare che i popoli credano in democrazie che sempre meno rendono sostanziali diritti e opportunità e nelle quali il solco tra cittadini, partitica e istituzioni si fa sempre più profondo.
Veniamo da decenni nei quali è completamente mancato un processo di auto-critica da parte dei sistemi democratici (non mancano i dibattiti critici ma chiariremo che qui s’intende qualcosa di molto più profondo). Nulla, evidentemente, che possa essere chiesto ai regimi autocratici che, per loro natura, rifiutano l’auto-critica. Il tema è di straordinaria importanza perché, dalla caduta del muro di Berlino in avanti, la democrazia è stata esaltata come l’unica speranza possibile e si è addirittura pensato che il mercato si auto-regolasse e fosse in grado, senza se e senza ma, di produrre benessere e sviluppo. Sappiamo che non è andata così. E oggi, senza la necessaria auto-critica, non basta dire – come alcuni analisti “lineari” sostengono retoricamente – che la missione dell’Occidente è portare nel mondo libertà e pace.
L’assenza di auto-critica, che è poi assenza di politica, e le varie crisi de-generative che oggi sono la megacrisi nella quale siamo immersi, hanno svuotato le democrazie dall’interno, svuotando di senso e di significato il “comune”, la relazione costitutiva della democrazia stessa. La partitica, un tempo alimentata da nobili scuole di formazione, si è del tutto personalizzata e la politica è inesistente perché si è ridotta a essere competizione tra i leader nelle arene televisive e social: il tutto, da ormai diversi anni, in una perenne campagna elettorale.
Il grande tema delle “società aperte” mostra tutti i suoi limiti. Secondo noi, come abbiamo già scritto, il futuro della globalizzazione si chiama glocalizzazione. Se vogliamo mantenere aperte le nostre società democratiche, per non cedere alle crescenti tensioni autarchiche, dobbiamo ri-trovare il talento della mediazione tra spinte globali e ricadute locali, territoriali. Questo è il punto nodale, insieme alla ri-costruzione del comune, di un pensiero strategico per un progetto di civiltà.
Le spinte globali, in un tempo di radicalità e di velocità dei processi storici, non chiedono permesso ma si insinuano nei nostri territori in maniera decisa e decisiva. Oltre alla mediazione sopra richiamata, per ri-costruire il comune occorre considerare le città e i territori come veri poli strategici. Tutto può ri-partire da lì, a cominciare dalla cultura del comune nella relazione. Ci vuole una nuova cultura della società aperta ma ri-pensata in chiave glocale, di sicurezza complessa tra la necessaria immunizzazione e la liberazione progettuale.
Se non mediamo politicamente i flussi globali nei nostri territori, com’è accaduto, il risultato è che la globalizzazione diventi una nostra nemica (e non solo sia percepita come tale). Ne consegue che l’asticella dell’immunizzazione si alza sempre di più, che – proprio in democrazia – si radicalizza la competizione identitaria tra gli autoctoni e gli altri e a farne le spese è la relazione e, di conseguenza, la coesione sociale. Nel “mentre” dei processi storici, la mediazione politica di cui sopra può aiutare a mantenere saldi i principi e le pratiche di welfare che, soprattutto in Europa, abbiamo faticosamente conquistato. Anche se nulla sarà più come prima nei prossimi decenni, non possiamo permetterci di gettare “il bambino con l’acqua sporca”.
Proprio in un mondo in continua trasformazione, occorre recuperare il vincolo consunstanziale che tiene insieme destini territoriali e destino planetario. In sostanza, questioni interne e questioni internazionali sono intimamente legate. Questo è il principio fondante della glocalità.
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