(Progetto di civiltà) Informalità progettuale e giudizio storico

Molta parte del dibattito pubblico, condizionato dall’imperare dell’audience, si concentra sulla qualità della partititica, sui movimenti tattici di coloro che la incarnano: il grande assente, non da oggi, è la politica. Lo diciamo con la consapevolezza di chi crede che la politica sia l’arte più nobile dell’uomo e di quanto, almeno da trent’anni a questa parte, non si sia lavorato a ri-pensarla per ri-fondarla in un mondo che, dalla caduta del muro di Berlino in poi, cambiava radicalmente (e velocemente).

Le politiche adottate in questi ultimi decenni, non volendo generalizzare ma cercando di guardare realisticamente alla situazione che viviamo, hanno inciso negativamente su ciò che è “comune”, né pubblico e né privato. Ne abbiamo scritto in contributi precedenti, sottolinendo come nelle città possa ri-costituirsi quella base di relazioni  oggi gravemente minacciata.

Tendiamo, molto spesso scegliendo un pensiero ancora del tutto lineare e causale, a leggere le dinamiche storiche l’una distaccata dall’altra, non nella loro com-presenza, e in chiave binaria. Questo è il problema culturale con il quale abbiamo a che fare. In sostanza, come abbiamo già notato, non ci rendiamo conto che siamo dentro una megacrisi, l’integrarsi pericoloso di molte crisi de-generative che, dalla sfera dei valori e dei principi a quelle della sicurezza e delle regole, trasformano nel profondo le nostre vite personali e in-comune.

Anziché affannarci nel cercare un ordine globale che non tornerà più, la politica (che non c’è) dovrebbe domandarsi come restituire possibilità di governo dei processi storici. Ancora non sembriamo aver capito che i grandi temi della sostenibilità e della rivoluzione digitale stanno dando al mondo prospettive incerte e del tutto diverse da quelle (che avvertivamo come certe) che vivevamo nel mondo di prima.

La sostenibilità non si lega soltanto alla questione ambientale, peraltro prioritaria. Sostenibilità riguarda molte altre questioni, è una parola-mosaico.

Sostenibili diventano le società nelle quali, come scrivevamo, si punti a ri-costruire le relazioni dal basso nel convidere prospettive progettuali di vita per nuovi futuri; laddove, in sostanza, si investa sul senso di comunità e sulla qualità di servizi organizzati in funzione del “comune”. Questi non sono solo auspici: è urgente organizzare in maniera sistemica, ponendole in dialogo, le tante iniziative che – provenienti dal pubblico, dal privato o dal mondo del cosiddetto “privato sociale” – lavorano a migliorare lo “spazio comune” di città e territori che, progressivamente e ri-pensandosi come laboratori di convivenza e di democrazia, diventino “poli strategici”. Per arrivare ad avere società in grado di reggere gli urti della megacrisi che incide pesantemente sulle vite locali, occorre che la base sociale sia coesa e creda nel “comune”. Se pensiamo alla pandemia, è ormai molto chiaro che il progressivo disinvestimento dal pubblico, particolarmente negli anni della de-regulation e delle spinte sul mercato e sulla competizione, abbia sacrificato questioni straordinariamente importanti come la medicina territoriale di prossimità. E’ nelle città che si può ri-costruire un sistema informale, “comune”, di prevenzione-solidarietà-intervento che aiuti il servizio sanitario (gestito centralmente) a essere più efficace, efficiente e verificato informalmente (ma sostanzialmente) dagli utenti finali. Altrettanto, se si pensa alle conseguenze della guerra in Ucraina, l’aumento dei prezzi di beni legati all’alimentazione e all’energia contribuisce ad allargare i divari già ampi tra le fasce di popolazione. Anche qui il tema del “comune” nelle città e nei territori fa la differenza: se il governo centrale, e l’Europa guardando oltre i confini nazionali, possono adottare misure per calmierare il mercato (peraltro caratterizzato anche da forti spinte speculative), ciò che davvero conta è la capacità delle città di essere luoghi “progettualmente solidali”. Non si tratta di fare l’elemosina a chi ha meno ma di mappare le (ormai) troppe situazioni di disagio e di operare nello spirito di comunità locali capaci di spinte propulsive, generative, progettuali. Le basi sociali che si muovono per migliorare l’efficienza sistemica delle comunità locali si pongono su un piano eminentemente politico, di quella politica che non è riconosciuta come tale.

Un tema che riguarda la sostenibilità e che è ormai strutturale nelle nostre democrazie liberali, minandone la credibilità agli occhi dei cittadini, è quello delle disuguaglianze. Come possiamo immaginare, infatti, che società profondamente disuguali possano essere sostenibili e condividere futuri-in-comune ? La partitica gira intorno al problema, non volendo capire che, per agire politicamente, occorre prendere atto che non funzionano soluzioni semplici a problemi complessi e che le ricette novecentesche non hanno più alcun senso. Lavorare nella ri-costruzione del “comune”, a partire dalle città, è un passo in quella “democrazia sostanziale” che rispetta le regole della democrazia formale ma che considera come la complessità della vita vada affrontata con un pensiero e con un approccio pragmaticamente nuovi.

Le iniziative che qui decliniamo come “comune”, che appartengono a ogni base sociale locale che diventa comunità politica, possono diventare – se inter-agenti – la rete nazionale, continentale e globale che alimenta e sostiene gli obiettivi di sostenibilità elaborati dai grandi fora globali, primo fra tutti l’ONU. Ogni giorno si può vedere come, in giro per il mondo, si sviluppino buone pratiche di grande valore per superare le disuguaglianze e tentare di fare sostenibilità. Ciò che qui si propone, nei termini di un “progetto di civiltà”, è la considerazione strategica di una rete inter-agente di comunità politiche glocali. Serve, perché tale considerazione diventi effettivamente strategia, un pensiero nuovo che accompagni le tante e diverse esperienze che si collocano nel percorso di sostenibilità.

Ancora, la sostenibilità glocale (del mondo, nei mondi) è conseguenza della pace e genera pace, è conseguenza della sicurezza e genera sicurezza. Ci eravamo illusi, circa trent’anni fa, che l’implosione dell’Unione Sovietica avrebbe eliminato i muri e avrebbe garantito la pace e promosso la democrazia ovunque. Non è stato così. Urge maturare un giudizio storico sulla situazione internazionale in progress, da calare in ogni locale: non esiste separazione tra politica interna e politica internazionale. Se gli spazi del  “comune”, in ogni città, generano comunità, pace, sicurezza, sostenibilità, quel lavoro informale di crescita-nel-comune non può prescindere dall’analisi di ciò che accade a livello planetario. Deve trattarsi di un’analisi critica e complessa, non orientata (come accade sistematicamente con la guerra in Ucraina) verso posizioni di tifoseria: occorre guardare al mondo sapendo che il bene e il male si com-penetrano, che sono il recto e il verso della stessa medaglia. Ridurre ciò che sta succedendo a uno scontro tra democrazie e autocrazie è limitante. C’è molto altro: potremmo dire, questa guerra è l’ennesima occasione data a tutti a noi di ri-cominciare a ragionare politicamente nel mondo-che-è e nel futuro già presente.

 

Marco Emanuele
Marco Emanuele è appassionato di cultura della complessità, cultura della tecnologia e relazioni internazionali. Approfondisce il pensiero di Hannah Arendt, Edgar Morin, Raimon Panikkar. Marco ha insegnato Evoluzione della Democrazia e Totalitarismi, è l’editor di The Global Eye e scrive per The Science of Where Magazine. Marco Emanuele is passionate about complexity culture, technology culture and international relations. He delves into the thought of Hannah Arendt, Edgar Morin, Raimon Panikkar. He has taught Evolution of Democracy and Totalitarianisms. Marco is editor of The Global Eye and writes for The Science of Where Magazine.

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