L’analisi della guerra in Ucraina non può che avvenire con uno sguardo ampio e complesso. Quella guerra, infatti, non lascerà il mondo come lo conoscevamo fino al 23 febbraio 2022.
Veniamo allo sguardo ampio e complesso. Ogni giorno, attraverso il diario geostrategico che curo per The Science of Where Magazine, cerco di dare evidenza del dibattito che – sulle grandi questioni planetarie – emerge dai principali think tank a livello internazionale. Da queste pagine, invece, mi domando quale sia la prospettiva strategica che debbano assumere il nostro pensare e il nostro agire (recto e verso della stessa medaglia). Scrivo di un “progetto di civiltà”, un tema che – anche in conseguenza della guerra in corso – pone a ciascuno di noi degli interrogativi fondamentali, non solo legati ai principi e ai valori. Tutto si rimescola inevitabilmente ed è negli ultimi tre decenni, dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, che progressivamente si è smarrito un talento necessario: quello dell’ascolto e del dialogo.
Qualcuno potrà dire: con tutte le urgenze che ci sono, un progetto di civiltà può fondarsi sull’ascolto e sul dialogo ? Non è troppo fragile questa prospettiva ? Ebbene, penso di no: cercherò di mostrare che non è così. Anzitutto perché, lo dico in premessa, l’ascolto e il dialogo sono profondamente politici, legati alla decisione strategica, pragmatici.
Molti dicono di non riuscire a capire il mondo. Ed è difficile, se ci si pensa, immergersi razionalmente nella infinità di dinamiche che formano la complessità del mosaico-mondo che viviamo. Ben più grave, a mio modo di vedere, è il non riuscire a com-prendere i mondi, a portarli dentro di noi, a considerarli parte integrante della nostra esperienza umana. Si è scavato un solco profondo nelle nostre società divise, complici le crescenti disuguaglianze ben presenti già prima della pandemia e della guerra, e ciò ha portato la convivenza a diventare una sorta di arena a vari livelli, ingovernata. Nell’ “ognun per sé” rischia di naufragare, a livello di relazioni internazionali, il tanto declamato sistema multilaterale e l’altrettanto declamata comunità internazionale.
Predichiamo le società aperte ma, a ben guardare, pratichiamo il contrario, tutti vittime della esaltazione dell’idea di interesse nazionale che, se va perseguito, diventa un problema se viene idealizzato e dogmatizzato. Il problema, semmai, è il governo politico delle società aperte ovvero il governo politico del processo che chiamiamo globalizzazione.
E’ chiaro come il tema delle società aperte valga soprattutto per i sistemi democratici. Non che gli altri sistemi, quelli cosiddetti autocratici, non utilizzino il mercato globalizzato, ma è da quelli democratici che ci aspettiamo di più, non foss’altro in termini di garanzia dei diritti e delle libertà e di “giuste” mediazioni tra i flussi planetari e le ricadute territoriali. E’ ancora chiaro come sia preferibile la peggior democrazia al miglior sistema autocratico ma occorre porre attenzione al processo de-generativo in atto: le democrazie, infatti, non sono immuni dal trasformarsi in altro. Dunque, rispetto al progetto di civiltà qui evocato, le democrazie liberali hanno una maggiore responsabilità storica.
Le democrazie liberali, rispetto alle quali ho espresso una evidente scelta di campo, devono avviare – guardando a un progetto di civiltà e se hanno la forza della politica – un grande lavoro critico rispetto a ciò che, particolarmente negli ultimi trent’anni della nostra storia, è accaduto o, per meglio dire, non è accaduto. E non basta dire, come alcuni sostengono (pur a ragione), che in Paesi come gli Stati Uniti esiste un dibattito critico interno da molti anni: il problema non è più quello ma è il necessario cambio di paradigma attraverso il quale immaginare nuove mediazioni (i rapporti di forza, o di potere, sono ineliminabili) e visioni storiche in un mondo che, in conseguenza del disordine sistemico e della rivoluzione tecnologica, ha bisogno di ri-pensamento per la ri-fondazione. In sintesi, di un progetto di civiltà.
E’ la realtà stessa che ci dice che il nostro approccio non è più adeguato: eppure basterebbe ascoltarla ed entrarci in dialogo. Basterebbe maturare un approccio politico di com-prensione.
Negli ultimi trent’anni, dalla implosione dell’Unione Sovietica a oggi, ci siamo illusi che bastasse abbattere una cortina di ferro per essere pienamente liberi. Oggi invece, come sostiene Limes (5/2022, p.7), ci troviamo ad affrontare una cortina di acciaio: Le cause della guerra sono molto più profonde delle dispute su spicchi di terra, acqua o cielo, trattabili via ragione strategica. Investono il senso del nostro (non) stare insieme, su entrambi i frastagliati fronti di quella che fu cortina di ferro e che scopriamo ormai d’acciaio. Lega più dura e resistente del metallo da guerra fredda. Allora ci si poteva odiare, parlando però ci si capiva. I gerghi ideologici convergevano in lingue simmetriche. Omologhe. La parola, bene comune, promuoveva ieri il silenzio delle armi. Il silenzio parlato – vulgo: chiacchiera – foriero d’incubi, spazio di deliri, di automatismi e strappi preterintenzionali, invita oggi a sparare. O ad armare chi presumiamo lo faccia per noi.
Ebbene, negli ultimi decenni le cortine di acciaio si sono moltiplicate, fin dentro i nostri sistemi democratici, sotto forma di muri (“nipoti” di quello crollato, solo simbolicamente, più di trent’anni fa) e di separazioni che troppo facilmente diventano conflitti armati. Oggi non basta più, anche se tutti lo vorremmo, l’approccio pacifista che non tenga conto dei rapporti di potere: perché essi sono dentro di noi, fanno parte della nostra umanità. E’ venuto il tempo, camminando in un progetto di civiltà, un “realismo progettuale”.
Anzitutto, il realismo dovrebbe restituire – anche mediaticamente – pari dignità a tutti i popoli oltraggiati, non solo a quelli che ci interessano in quel momento. se provassimo a guardare il mondo attraverso la lente dei vinti ci accorgeremo, nostro malgrado, che tutti ne siamo parte: la sfida del progetto di civiltà, attraverso il realismo progettuale, è di renderci conto che non può esistere alcuna prospettiva di sostenibilità se continuiamo a insistere con il modello a-politico, e per questo banalmente violento, nel quale siamo immersi.
La riflessione deve essere sistemica. Senza drammatizzare, dobbiamo fare tesoro dei grandi insegnamenti del passato (quando, potremmo dire, la politica e la diplomazia erano una cosa seria, non esenti da errori) ma calandoli in una realtà-mondo che apre nuovi futuri, che ci mette di fronte a prospettive inattese. Sappiamo che nessuna sfida è solo settoriale e che ogni sfida, ormai, nasce oltre i nostri confini e si cala dentro di essi. Sappiamo che, guardando alle evoluzioni tecnologiche e alla realtà cyber, i paradigmi di un tempo sono del tutto obsoleti. Sappiamo che gli Stati perdono progressivamente il loro significato strategico mentre le Nazioni (identità) sembrano guardagnarne. Sappiamo che il pensiero lineare ha fatto il suo tempo.
Non possiamo attendere la fine della guerra per immaginare l’oltre. Abbiamo la responsabilità di lavorare creativamente e di assumere sulle nostre spalle il peso della Storia: che è la nostra, hic et nunc.
La riflessione continua …