Una nuova architettura di governo politico “glocale” (prospettiva che qui si predilige), della diversità nell’unità e dell’unità nella diversità e dal locale al planetario e dal planetario al locale, non può che nascere da nuovi dialoghi. E’ evidente che il sistema-mondo che conosciamo fatica a reggere all’impatto delle dinamiche che stanno interessando il nostro tempo: dalle pandemie, alle guerre e non solo.
Invochiamo nuovi dialoghi, il che sottende il ricercare nel dialogo, perché nulla è separato dal resto, il bene non è separato dal male, i regimi autoritari non sono incidenti della Storia e le democrazie non sono immuni dalla loro de-generazione. Per governare questo mondo, in ogni contesto, non si può più utilizzare il comodo pensiero lineare e binario, solo competitivo, escludente. Attraverso nuovi dialoghi, allora, è possibile costruire la strada complessa di un “progetto di civiltà”.
Se, da un lato, ha ragione Rampini (2022) a dimostrare la clamorosa (e pericolosa) stupidità del “suicidio occidentale”, dall’altro lato non si può non invitare ogni civiltà, a qualunque latitudine, ad aderire a un processo di profonda auto-critica. Alcuni diranno che questo sarebbe possibile solo in democrazia ma noi crediamo che, volendo un mondo sostenibile, un tentativo di dialogo culturale, di civiltà, vada fatto a livello mondo e dentro ogni contesto. Non foss’altro, uscendo dalla logica talvolta barbara e volgare dei talk show televisivi e dei social media, lavorando davvero a conoscere (parola nobile e troppo spesso confusa con l’essere informati) l’altrui civiltà. Il tutto, naturalmente, condannando decisamente pratiche di guerra o di invasione ingiustificate (quella di Putin e del suo gruppo di potere ai danni dell’Ucraina è una di queste) ma cominciando a distinguere le azioni dei governi dalla volontà dei popoli (anche sottolineando, naturalmente, i casi tragici nei quali vi siano state, e vi siano, contiguità o compromissioni).
Molto spesso, soprattutto nelle democrazie, si vorrebbero cancellare tradizioni consolidate in nome di ritorni del passato, di colpe antiche (vere o presunte) strumentalizzate in una fase convulsa e confusa come l’attuale. L’esempio dell’attacco al Thanksgiving Day negli USA (Rampini 2022, p. 27) aiuta a capire i paradossi che spesso si generano. Laddove si rinuncia al dialogo, anzitutto dentro a ogni sistema-Paese, tutto rischia di trasformarsi in un caos non creativo e divisivo. E’ fondamentale e decisivo, allora, il continuo lavoro tra tradizione e innovazione. Per migliorare il futuro, occorre calarsi criticamente nelle contraddizioni di ciò che siamo stati. Valgono, come monito e come visione, le parole di Hannah Arendt (2009, p. LXXXII): La corrente sotterranea della storia occidentale è finalmente venuta alla superficie usurpando la dignità della nostra tradizione. Ecco la realtà in cui viviamo. Ecco perché tutti gli sforzi compiuti per evadere dall’atmosfera sinistra del presente nella nostalgia per un passato ancora intatto, o nell’oblio anticipato di un migliore futuro, sono vani.
Per dialogare, le società devono passare attraverso l’auto-critica. E questa può essere dolorosa perché fare i conti con la propria storia non è sempre facile o scontato. Mauro Ceruti (2012, in Morin, La via, p. X) scrive di Edgar Morin e della sua auto-critica dopo l’adesione al movimento comunista nazionale e internazionale: L’autocritica produsse una metamorfosi che avrebbe generato la sua vita e la sua ricerca: l’auto-osservazione è diventata per lui necessario complemento dell’osservazione, quale condizione di una vita e di una ricerca autentiche, tese a cercare in se stesso, prima ancora che negli altri, l’origine ricorrente dell’errore e della menzogna. In generale l’ auto-critica, se sincera, è condizione di ri-nascita.
Una notazione può aiutare a capire meglio la natura di questo nostro lavoro-in-progress. Dopo la caduta del muro di Berlino, in molti futuro presi dalla straordinaria euforia della “fine della storia”. Nota Ceruti (2012, in Morin, La via, p. XII): Per Edgar Morin, al contrario, quegli eventi erano i segni di un impetuoso scongelamento, di “un nuovo inizio” della storia: improbabile, imprevisto, che poneva ora la sfida di un mondo inedito, e la necessità di una politica e di un pensiero altrettanto inediti.
Quanti, ci domandiamo, hanno incarnato questa prospettiva ? Se guardiamo il mondo di oggi, a “pensare critico e complesso” è rimasta una minoranza, quasi del tutto assente nelle cosiddette classi dirigenti. E’ venuto il tempo di riprendere questa sfida che definiamo di “pensiero strategico”.
Vale, nel nostro tempo, in questi primi decenni travagliati del XXI secolo e utilizzando una espressione di Morin, la considerazione della compresenza dell’età dell’oro e dell’età dell’orrore. Mentre siamo dentro a una straordinaria, e all’apparenza inarrestabile, rivoluzione tecnologica (dalla terra allo spazio), il mondo è percorso dall’abisso di una guerra che, combattuta dagli eserciti e nel “dominio” della disinformazione e nel mondo cyber, entra nelle vite per umiliarle e cancellarle (come tutte le guerre) e condiziona pesantemente le economie con modalità devastanti e, molto spesso, imprevedibili. Sullo sfondo, naturalmente, vi è l’incombente pericolo nucleare: l’altra faccia del progresso è che l’uomo ha inventato, potremmo dire che si è servito, le modalità della propria auto-distruzione.
E’ con questo spirito, dell’oro/orrore, che vogliamo condurre il nostro lavoro. Cosa vogliamo ricercare ? Scrivere di “progetto di civiltà” può sembrare ambizioso, e lo è. Occorre portare dentro al dibattito l’altro modo di considerare la realtà, non più soltanto lineare e binario. Scrive Ceruti (2012, in Morin, La via, p. XIII): I frammenti di umanità sono ormai in irreversibile e istantanea interdipendenza, ma l’interdipendenza non ha creato la solidarietà; sono in comunicazione, ma le comunicazioni tecniche o commerciali non creano la reciproca comprensione. L’accumulo delle informazioni non crea la conoscenza, e l’accumulo delle conoscenze non crea la comprensione. Nello stesso tempo in cui si sono realizzati innumerevoli processi di unificazione, si sono anche sviluppate formidabili disgregazioni, regressioni, chiusure (nazionali, etiche, religiose).
Questo passaggio ci dice molte cose. La forza dei reciproci interessi, dunque la competizione, pesa molto di più della cooperazione. A maggior ragione, ciò è ancora più vero in un tempo nel quale è in atto un evidente processo di ri-globalizzazione.
La questione dell’interdipendenza è centrale. Essere collegati in un mondo interdipendente, però, non basta per creare un ambiente cooperativo e solidale. Occorrerebbe, anzitutto dal punto di vista culturale, ripensare l’interdipendenza. Perché occorre ri-trovare quel vincolo che ci lega l’un altro in un “destino planetario”, non solo il contenitore delle infinite differenze ma il processo che costruisce progressivamente il mosaico -mondo.
Proviamo a ragionare di “inter-in-dipendenza”. Siamo dentro il vincolo della dipendenza. Vincolo che è la condizione primaria della nostra libertà. L’essere dipendenti l’uno dall’altro ci vincola a fare auto-critica, a dialogare, ad aprire le porte all’altro come la parte di noi che ancora non conosciamo (pur restando noi stessi). Questo livello di ragionamento ci porta nuovamente nella necessaria distinzione tra persone-popoli e governi: non fare questa distinzione, appiattendo gli Stati sui governi e sulle classe dirigenti e dimenticando l’identità dinamica dei popoli, significa ragionare inevitabilmente ed esclusivamente di rapporti di potenza e trascurare del tutto le ragioni dell’umano-progettuale, ragioni politiche.
Lavoriamo affinché tutto questo diventi alimento di un “pensiero strategico” nell’ inter-in-dipendenza. Qui non si tratta semplicisticamente di dar voce ai popoli ma di immaginare un mosaico – mondo nel quale l’azione dei popoli diventi l’azione politica e condizioni l’azione dei governi e delle classi dirigenti in maniera sostanziale e non soltanto attraverso un disordinato dissenso o manifestazioni di piazza. Le persone-popoli devono diventare “soggetti politici” e, nelle nostre democrazie stanche, riprendersi dall’astensionismo dilagante e ricominciare a pensare politicamente il proprio contesto di vita e il mondo. Qui non si tratta né di candidarsi alle elezioni né di assaltare il “palazzo d’inverno”: si tratta, invece, di riappropriarsi insieme della Storia comune, ciò che ciascuno di noi ha volentieri, e improvvidamente, delegato.
E’ il momento di una nuova consapevolezza, per nuovi inizi. La guerra che si sta combattendo in Ucraina mostra tutti i segni di un allargamento al livello planetario, non foss’altro per le conseguenze che sta generando. Il tema, oggi, non è solo l’indignazione di fronte a un atto criminale come quello portato da Putin e dal suo gruppo di potere (lo ribadiamo) al popolo ucraino e alla sovranità di un Paese libero. Il tema è ben più ampio e riguarda la sopravvivenza stessa dell’Europa, per limitare lo sguardo, e dell’umanità, per essere ancora più realisti. Se i regimi autoritari non spostano il loro angolo di visuale dalle questioni di potenza, è responsabilità dei regimi democratici andare oltre la linearità: la soluzione non può essere la NATO globale. Ciò ci porterebbe in un quadro di continua tensione, assolutizzando una sicurezza male intesa e alimentando unicamente l’economia di guerra. Cosa vogliono i popoli ? Quale sicurezza occorre costruire, e per quale pace ? La sfida è aperta.
Bibliografia in progress:
- Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009
- Edgar Morin, La via. Per l’avvenire dell’umanità, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012
- Vittorio Emanuele Parsi, Titanic. Naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale, il Mulino, Bologna 2022
- Federico Rampini, Suicidio occidentale, Mondadori, Milano 2022