Per un progetto di civiltà. Si comincia (di Marco Emanuele)

E’ venuta l’ora di allargare il nostro sguardo sul mondo. Siamo dentro la prima “guerra ibrida” del XXI secolo, quella che si combatte in Ucraina, le cui componenti (on the ground, economica, tecnologico-cyber) sono inseparabili e dovrebbero coinvolgerci allo stesso modo in termini di gravità e di effetti più o meno nefasti: anche se, è evidente, la vista dei morti, dei feriti e degli sfollati, e la tanta retorica dell’informazione e della disinformazione, ci portano a focalizzare – fenomeno umanamente comprensibile – alcuni aspetti più drammatici rispetto ad altri.

La guerra, come ogni fenomeno umano, si lega alla complessità della Storia. Se chi invade un Paese sovrano ha sempre torto (Putin nel caso dell’Ucraina), il momento storico che viviamo chiede sguardi larghi e profondi. E’ troppo comodo, riteniamo, ridurre il pensiero strategico all’analisi del male di turno, in questo caso il sistema di potere russo: è troppo comodo fermarsi a riflettere, e nessuno nega che occorra farlo, sulla penetrazione della disinformazione (e non solo) russa negli altri Paesi. Ci sembra un esercizio limitante perché ci dà una sola prospettiva, quasi a indicare che – sconfitto quel male – la Storia rientri nelle mani di chi incarna il Bene, di chi porta la Verità.

Sgombriamo subito il campo. Non abbiamo dubbi sul fatto che sia preferibile vivere in un sistema democratico anziché in uno autocratico. Per questo non parleremo dei limiti dei sistemi autocratici perché non ci aspettiamo alcunché da questi ultimi: sappiamo come funzionano e, pertanto, non nutriamo speranze. Ma quei sistemi, come gli analisti (talvolta dogmatici) spiegano, vanno inseriti nella ri-composizione del potere planetario, una geografia in perenne evoluzione. Talvolta, però, il Mondo-del-Bene ha usato quei sistemi per fini d’interesse, ci ha dialogato non attraverso la Politica (volutamente scritta in maiuscolo, perché non presente all’appello) ma, piuttosto, attraverso le dinamiche, spesso ben poco trasparenti, di rocambolesche avventure affaristiche (spacciate per politica “in minuscolo”) che, quando escono dall’opacità, ci danno qualche interessante chiave di lettura. Sottolineiamo questo per rispetto della nostra onestà intellettuale e per non apparire troppo ingenui: un pò siamo al corrente di come va il mondo.

Dovremmo interrogarci, e qui parte la nostra ricerca, su quale mondo vorremmo vivere, ben sapendo che non può esistere il Paradiso-in-Terra (qualcuno ci ha provato in anni non troppo lontani e ha generato i mostri del totalitarismo) ma che mediazione dei rapporti di potere e visione progettuale devono andare di pari passo. Entrambe, diciamo con radicale realismo, ci sembrano molto carenti.

Due parole sono centrali nel nostro lavoro che, in quanto cammino, si fa camminando: Politica e Complessità. Si tratta di un cammino che vorremmo percorrere con lo spirito di Edgar Morin (Lezioni da un secolo di vita, 2021, p. 143): Vivere è navigare in un oceano di incertezza facendo rifornimento in isole di certezze.

Dove vorremmo approdare ? E’ difficile dirlo perché, come ogni cammino, questo lavoro incontrerà resistenze e dovrà fare i conti con gl’imprevisti che inevitabilmente condizioneranno le nostre convinzioni. Vediamo, in prospettiva, la nostra volontà di elaborare un progetto di civiltà passando attraverso la ri-elaborazione di un pensiero strategico. Azzardo, dirà qualcuno, secondo noi necessario e urgente.

Vi sono alcuni elementi che, a nostra valutazione, occorre illuminare. Proviamo a elencarli, senza pretesa di esaustività.

In primo luogo sottolineiamo come bene e male si com-penetrino. Siamo a un punto della Storia nel quale è complicato, per qualcuno, ergersi a giudice imparziale. E non si tratta di giustificare il male ma di relativizzare il bene. Nessuno di noi, tanto meno nessun sistema che contribuiamo a organizzare, può dirsi estraneo al principio di contraddizione: esso vive dentro di noi, ci percorre e, se non governato politicamente, può logorarci fino a farci diventare il nostro contrario, la parte di noi che, per paura, mai vorremmo conoscere. Questo primo punto costituisce, per noi, la frontiera di una riflessione morale. La vera morale è nel riconoscerci per chi siamo davvero, esseri umani fragili che tentano faticosamente di ritrovare un senso che ci sfugge, che cammina con noi e che, troppo spesso, pensiamo di aver raggiunto e consolidato nell’essere-il-bene: questa è la ragione per  cui ciascuno, a cominciare da chi scrive, dovrebbe invitar(si) alla relatività, al dubbio, a vivere come se fosse l’altro, a non dividere il mondo tra amici e nemici. Senza giustificare il male, lo ribadiamo.

E’ debole chi fa auto-critica di sé ? Noi pensiamo di no e il mondo è lì a dimostrarcelo. C’è poca riflessione morale. L’unica sicurezza che vediamo affacciarsi su un mondo in fiamme è quella di chi pensa di incarnare la Verità, di chi vive la certezza come un fine irrinunciabile, quasi che questa fosse la ragione prima per cui vivere. C’è molta debolezza nell’insistere sulla certezza della forza: non c’è, in quella, la potenza del pensiero, della mediazione, della visione. Come rifiutiamo la banalità del male di aggressione (come il male totalitario), così critichiamo l’uso strumentale della forza da parte di un bene (presunto tale) che si vorrebbe puro e cristallino, non contaminato dal male nella Storia. Ci rendiamo conto che questo punto potrà sollevare interrogativi e critiche, peraltro benvenuti: ma la nostra riflessione morale non può prescinderne.

In secondo luogo, nessuna cultura può essere dominante o soccombente. Ecco la frontiera di una riflessione culturale: la cultura nasce dentro, nel profondo di esperienze umane contraddittorie. Qualunque cultura è in perenne metamorfosi e in costante contestualizzazione. Esistono gli universi culturali, non gli universali culturali.

Ci piacerebbe che tutti avessero lo stesso sentire intorno a parole come democrazia, libertà, giustizia, equità, solidarietà e così via. Ma sappiamo che non è così perché, complici tanti fattori, gli universi culturali tendono a radicalizzarsi o nell’autarchia (spesso con pericolose nostalgie di un glorioso passato per un presente e un futuro di conquista) o nella esportazione-persuasione di modelli che si vorrebbero adatti a tutti, applicabili come etichette su una merce, consumabili indistintamente a ogni latitudine. Tale radicalizzazione “gioca” moralmente, e reciprocamente, nella competizione tra un presunto bene e il male (vero o potenziale che sia). Così l’occidente radicalizzato combatte il male radicalizzato in altre parti del mondo: un male che si crede salvifico e che legge l’altra parte del mondo, che si crede libera e liberante, come il male assoluto. Un circolo vizioso inestricabile attraverso la non-cultura degli universali culturali.

In questo ambito di riflessione culturale la parola-chiave è dialogo. Per qualcuno potrà apparire banale ma il dialogo è molto di più di ciò che sembra. Troppo spesso, infatti, la cultura del realismo risulta appiattita su un presente imminente, senza respiro storico. Ascoltiamo ancora Morin (Lezioni da un secolo di vita, 2021, p. 145): Bisogna non essere realisti nel senso banale (adattarsi all’immediato) né irrealisti nel senso banale (sottrarsi ai vincoli della realtà), bisogna essere realisti ma nel senso complesso: comprendere l’incertezza del reale, sapere che c’è del possibile ancora invisibile.

C’è un tema di fondo. A seconda di dove siamo nati, abbiamo e maturiamo un pensiero, un’abitudine culturale e con quella viviamo e, attraverso di quella, pensiamo il mondo. Attenzione però. A forza di radicalizzarci, a qualunque latitudine, nelle nostre abitudini di pensiero, otteniamo due risultati negativi: il primo è di svuotare progressivamente di senso il nostro pensiero perché esso gira insistentemente nello stesso humus, non si rinnova, non si ripensa; il secondo è di sclerotizzare la nostra riflessione culturale, immaginando che tutto ciò che non corrisponde alla nostra Verità culturale sia qualcosa di irrimediabilmente sbagliato e che può meritare soltanto considerazione negativa.

Mentre è normale che ciascuno di noi cerchi di portare nelle relazioni ciò-che-è, e dunque ciò-che-pensa, il dialogo serve – anzitutto – a evidenziare il limite culturale che ci mostra il terreno della possibile sclerotizzazione della nostra riflessione (conseguente allo svuotamento di senso del pensiero). Nel pensare, la tentazione è forte di voler trasferire sull’altro le nostre convinzioni: cadere in essa sarebbe rendere l’altro un nostro oggetto di trasferimento lineare di informazioni. In tal modo sclerotizzando sia la nostra che l’altrui riflessione culturale e non conoscendo.

Il dialogo chiede di mettere al centro non le reciproche convinzioni ma la disponibilità a relativizzarle. Per fare questo, evidentemente, occorre credere fortemente nella relatività delle reciproche convinzioni: il primo passo del dialogo è nella mediazione di ciò che pensiamo, ciò che potremmo definire “dialogo dialettico”. Ci sarà confronto, anche duro, ma è un passaggio non eludibile. Questo prepara il secondo passo del dialogo che riguarda la sua costruzione progettuale: il “dialogo dialogale”. Qui, infatti, mediate il più possibile le reciproche convinzioni, il dialogo diventa relazione, ciò-che-lega, avventura nel terreno comune della visione storica. Solo in questo modo, dialogando, ciò che pensiamo non rimane sterile Verità di parte (imposta con la forza) ma diventa possibilità comune tra differenze (che non scompaiono). Ben si comprende, fin da questa introduzione, che il dialogo inteso in senso complesso (al contempo, dialettico e dialogale) ci porta dentro un ri-pensamento sistemico di ciò che siamo, delle nostre vite-in-comune fino a un rinnovato impianto delle relazioni internazionali.

In terzo luogo introduciamo i passaggi per una adeguata riflessione politica nel tempo che viviamo. Se male e bene si com-penetrano, se è attraverso il dialogo che possiamo percorrere frontiere culturali di vera visione storica, la sfida politica è decisiva, determinante. Essa percorre trasversalmente gli elementi di un progetto di civiltà che qui si illuminano. L’aspetto politico, nella prospettiva morale evocata, va vissuto come il filo rosso che sostiene la com-penetrazione tra bene e male, che dà senso al discorso morale: in sostanza, l’elemento politico di scelta e di decisione non può prescindere dal fatto che noi siamo ciò che viviamo nella realtà. Nel guardare a un progetto di civiltà, l’aspetto politico ci dice che dobbiamo fare sintesi della nostra complessità, senza tradirla e senza illuderci che sconfiggere il male significhi soltanto indebolirlo militarmente e/o facendo prevalere altri valori: sappiamo che questo non è sufficiente se il superamento del male non passa attraverso un processo profondo di auto-critica. La pace non è semplicistica assenza di guerra ma un processo storico che non ha mai fine. Ancora, l’aspetto politico entra nel discorso culturale perché il dialogo, dialettico/dialogale e complesso, è profondamente politico: cos’è il dialogo dialettico se non la mediazione e cos’è il dialogo dialogale se non la visione ?

In quarto luogo vi è l’aspetto economico, di costruzione del progetto politico. Come fare in modo che la riflessione politica diventi scelta e decisione strategica ai diversi livelli ? Essa va costruita come fatto sistemico nella quotidianità dei sistemi istituzionali, di governo, da e in ogni nostro locale fino al mondo. Queste due dimensioni sono interrelate e non sono separabili: il senso stesso della globalizzazione è nel vincolo di inseparabilità tra ciò che vive dentro e fuori i confini degli Stati. Su questo punto, lo abbiamo visto con la pandemia e lo vediamo con la guerra, il vincolo che ci lega può diventare disagio/tragedia o possibilità/rinascita. Dipende dalle scelte politiche che compiamo (strategiche se comprendono mediazione e visione, se si fondano culturalmente sul dialogo e moralmente sulla com-prensenza di bene e male) e dalle modalità della loro costruzione.

Quanto, in questi ultimi decenni, abbiamo riflettuto secondo complessità riguardo alla natura e agli orizzonti del capitalismo ? Quanto abbiamo tenuto in conto le ricadute sociali che stiamo vivendo e che incidono sulla qualità del nostro con-vivere ?

In quinto luogo si pone il tema giuridico, della organizzazione complessa di un sistema di regole a livello locale-planetario. Dopo la caduta del muro di Berlino e l’implosione dell’URSS, il mondo non si è dato un sistema di regole condivise che potessero sostenere e indirizzare le trasformazioni epocali che erano in nuce e che, successivamente, sono esplose. Questo tema si pone oggi con grande evidenza perché, con realismo, dobbiamo ammettere che siamo a un punto di svolta: quali regole per quale mondo ?

Due fattori, oltre ai cinque elementi della complessità per un pensiero strategico – progetto di civiltà, vanno evidenziati. Il primo riguarda la frontiera della glocalizzazione. Il secondo è il paradigma tecnologico, ciò che davvero sta cambiando le nostre relazioni umane, fino alla ri-configurazione del mondo.

Entrambi questi fattori, che ce rendiamo conto o meno, dovrebbero essere considerati a fondamento di ogni riflessione strategica. Li approfondiremo. La frontiera della glocalizzazione ci mette di fronte a una domanda chiara: il mondo globalizzato subirà contraccolpi dalla pandemia e dalla guerra ? stiamo andando verso una ri-globalizzazione o verso una de-globalizzazione ? Rispetto al paradigma tecnologico, consapevoli della infinita letteratura sul tema, riprendiamo le parole di Jessica Dawson and Tarah Wheeler pubblicate dal think tank Brookings: The United States and China are increasingly engaged in a competition over who will dominate the strategic technologies of tomorrow. No technology is as important in that competition as artificial intelligence: Both the United States and China view global leadership in AI as a vital national interest, with China pledging to be the world leader by 2030. As a result, both Beijing and Washington have encouraged massive investment in AI research and development. Il fattore tecnologico, naturalmente, è parte di una grande competizione strategica ma non è limitabile a questo: gli strumenti tecnologici, nel “dove” delle relazioni umane, aprono nuovi orizzonti.

 

Marco Emanuele
Marco Emanuele è appassionato di cultura della complessità, cultura della tecnologia e relazioni internazionali. Approfondisce il pensiero di Hannah Arendt, Edgar Morin, Raimon Panikkar. Marco ha insegnato Evoluzione della Democrazia e Totalitarismi, è l’editor di The Global Eye e scrive per The Science of Where Magazine. Marco Emanuele is passionate about complexity culture, technology culture and international relations. He delves into the thought of Hannah Arendt, Edgar Morin, Raimon Panikkar. He has taught Evolution of Democracy and Totalitarianisms. Marco is editor of The Global Eye and writes for The Science of Where Magazine.

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