La grande difficoltà di una ricerca complessa è di non cadere nelle radicalizzazioni della cronaca. Il tentativo è di avviare un cammino che guardi alle tendenze di fondo e nel profondo, nell’incertezza di chi siamo e di chi diventiamo.
Si scontrano, inevitabilmente, due visioni su come affrontare il presente di megacrisi degenerativa e di guerra mondiale a pezzi che caratterizza il nostro tempo: la prima, senza voler banalizzare e generalizzare, è di contrapposizione muscolare tra sistemi costituiti che vogliono salvaguardare le proprie caratteristiche e che si chiudono e cercano soluzioni autoctone, fuggendo dalla dimensione planetaria; la seconda è nella ricerca di spazi comuni di dialogo, non cancellando i punti a favore della società aperta, prendendo atto sia dei benefici portati dalla globalizzazione che dei rischi che nascono dai limiti, ormai conclamati, della stessa. Siamo per una strategia del dialogo e della sostenibilità sistemica: su questo cercheremo di argomentare.
Il nostro punto di fondo è che non possiamo ragionare di sostenibilità senza problematizzare i paradigmi novecenteschi che abbiamo ereditato e che servivano ad affrontare le questioni strategiche in un mondo che non c’è più. La proliferazione dei soggetti strategici, statuali e non, e la fluidità dei processi storici ci chiamano a nuove responsabilità di mediazione e di visione e all’avvio di un grande processo di ripensamento di ciò che chiamiamo politica.
Il cammino che intraprendiamo matura sul terreno della crescente complessità. E’ difficile capire il punto attorno al quale far girare una riflessione sistemica: c’è un’evidente confusione che genera un chiaro bisogno di semplificazione, di separazione e di certezza. Molti sembrano essersi arresi a questa deriva considerata inevitabile e, appiattiti sul presente imminente, immaginano che la partita strategica sia solo competitiva: tra democrazie e autocrazie; tra crescita e decrescita; tra Stato e mercato. Non può essere così perché la sostenibilità sistemica può evolvere, pur nelle contraddizioni che ci appartengono, solo dentro un approccio progettuale che, non negando la competizione tra interessi di parte, comprenda l’urgenza di spazi d’incontro e di dialogo al di là dell’imminente.
Crediamo che sia decisivo concentrarci sulle contraddizioni che ci appartengono. E’ la stessa umanità, infatti, che costruisce le condizioni del suo avanzare così come quelle del suo arretrare: siamo il bene e il male, la pace e la guerra, le prospettive di rinascita e quelle di auto-distruzione. Solo se siamo consapevoli di questo, infatti, possiamo guardare oltre: dire che nessuno può ergersi a giudice della storia significa riconoscere che tutti abbiamo una parte di responsabilità in ciò che ancora vediamo accadere, drammaticamente, nel primo quarto del XXI secolo. Nel riconoscere questo, occorre dire chiaramente che l’invasione dell’Ucraina da parte russa è inaccettabile, che si pone fuori da ogni norma del diritto internazionale e che le resistenze (quella del popolo ucraino così come quella di ogni altro popolo oltraggiato e oppresso in giro per il mondo) vanno sostenute (non solo a parole).
La storia, però, parla chiaro e non possiamo negarla: gli eventi degli ultimi trent’anni, seguiti all’implosione dell’Unione Sovietica, ci avrebbero dovuto far riflettere sulla necessità di nuovi approcci alla complessità che stava maturando: era, ed è, una complessità sistemica e, in molti casi, le classi dirigenti hanno risposto, e continuano a rispondere, con opzioni che definiamo di geoApolitica.
Crediamo che sia venuto il tempo di trasformarci dentro la grande trasformazione in atto. Non è possibile continuare a schierarsi tra l’opzione di una esasperata competizione permanente, dentro un’oggettiva economia di guerra, e l’idea di una cooperazione sterile dentro l’idea di mondo buono che non esiste nei fatti. Il tema vero è la consapevolezza dei rapporti di potere, partendo dalla loro non negazione.
Scriviamo di un potere che, progressivamente, si fa più fluido e riguarda sistemi che fatichiamo a riconoscere come quelli che determinano le nostre vite: un esempio è la rivoluzione tecnologica, ciò che davvero trasforma le nostre vite, la convivenza umana, la natura degli Stati e i rapporti tra di loro, fino alle relazioni internazionali. Il potere, in sostanza, è sempre più spesso dove non lo vediamo, sempre più impalpabile. Sappiamo, perché molte analisi ce lo dicono, che l’intelligenza artificiale e le sue frontiere spostate progressivamente in avanti incide ormai in tutti gli ambiti: dalla salute, al governo delle città e dei territori, al lavoro, alla qualità democratica, all’arte. Si tratta di un potere invisibile ma che determina pesantemente e profondamente: un potere, dunque, del quale vediamo gli effetti ma del quale non riusciamo a comprendere l’origine, il centro propulsore.
Siamo eredi del potere dello Stato ma, negli ultimi trent’anni, non abbiamo ragionato del suo riformarsi nella trasformazione dell’ambiente geostrategico. Qui vediamo l’origine della geoApolitica che ha corrisposto con il ritorno delle storie, fine dell’illusoria fine della storia che aveva eccitato gli animi e le menti dopo l’implosione dell’Unione Sovietica.
english version
The great difficulty of a complex research is not to fall into the radicalisation of the chronicle. The attempt is to set out on a path that looks at the underlying trends and deep down into the uncertainty of who we are and who we become.
Inevitably, two visions clash on how to deal with the present of degenerative megacrisis and world war in pieces that characterises our time: the first, without wishing to trivialise and generalise, is of muscular confrontation between constituted systems that want to safeguard their own characteristics and that close themselves off and seek indigenous solutions, fleeing from the planetary dimension; the second is in the search for common spaces for dialogue, not erasing the points in favour of the open society, taking note of both the benefits brought by globalisation and the risks that arise from its limits, now proclaimed. We are for a strategy of dialogue and systemic sustainability: we will try to argue on this.
Our basic point is that we cannot reason about sustainability without problematising the twentieth-century paradigms that we inherited and that served to address strategic issues in a world that no longer exists. The proliferation of strategic subjects, both State and non-State, and the fluidity of historical processes call us to new responsibilities of mediation and vision and to the start of a great process of rethinking what we call politics.
The path we take matures on the terrain of increasing complexity. It is difficult to understand the point around which a systemic reflection should revolve: there is an obvious confusion that generates a clear need for simplification, separation and certainty. Many seem to have surrendered to this drift considered inevitable and, flattened by the imminent present, imagine that the strategic game is only competitive: between democracies and autocracies; between growth and degrowth; between State and market. This cannot be the case, because systemic sustainability can only evolve, even in the contradictions that belong to us, within a project approach that, while not denying the competition between vested interests, understands the urgency of spaces of encounter and dialogue beyond the imminent.
We believe that it is decisive to focus on the contradictions that belong to us. It is humanity itself, in fact, that constructs the conditions of its advance as well as those of its retreat: we are the good and the bad, peace and war, the prospects of rebirth and those of self-destruction. Only if we are aware of this can we look beyond: to say that no one can stand as judge of history is to recognise that we all have a share of responsibility in what we still see happening, dramatically, in the first quarter of the 21st century. In recognising this, it must be clearly stated that the Russian invasion of Ukraine is unacceptable, that it is outside the norms of international law, and that resistance (that of the Ukrainian people as well as that of every other outraged and oppressed people around the world) must be supported (not just in words).
History, however, speaks for itself and we cannot deny it: the events of the last thirty years, following the implosion of the Soviet Union, should have made us reflect on the need for new approaches to the complexity that was maturing: it was, and is, a systemic complexity and, in many cases, the ruling classes have responded, and continue to respond, with options that we define as geoApolitical.
We believe that the time has come to transform ourselves within the great transformation taking place. It is not possible to continue to take sides between the option of an exasperated permanent competition, within an objective war economy, and the idea of a sterile cooperation within the idea of a good world that does not exist in fact. The real issue is the awareness of power relations, starting from their non-negation.
We are writing about a power that, progressively, becomes more fluid and concerns systems that we struggle to recognise as those that determine our lives: an example is the technological revolution, what really transforms our lives, human coexistence, the nature of States and the relationships between them, up to international relations. Power, in essence, is increasingly where we do not see it, increasingly intangible. We know, because many analyses tell us so, that artificial intelligence and its progressively forward-shifted frontiers now affect all spheres: from health, to the governance of cities and territories, to labour, to democratic quality, to art. It is an invisible power but one that determines heavily and profoundly: a power, therefore, whose effects we see but whose origin, its driving force we fail to understand.
We are heirs to the power of the State but, over the past thirty years, we have not reasoned about its reform in the transformation of the geo-strategic environment. Here we see the origin of geoApolitics that corresponded with the return of stories, the end of the illusory end of history that had excited minds and souls after the implosion of the Soviet Union.
version française
La grande difficulté d’une recherche complexe est de ne pas tomber dans les radicalisations de la chronique. Il s’agit de s’engager sur une voie qui s’intéresse aux tendances de fond et, au fond, à l’incertitude de ce que nous sommes et de ce que nous devenons.
Inévitablement, deux visions s’affrontent sur la manière d’aborder le présent de la mégacrise dégénérative et de la guerre mondiale en morceaux qui caractérise notre époque : la première, sans vouloir banaliser et généraliser, est celle d’une confrontation musclée entre des systèmes constitués qui veulent sauvegarder leurs propres caractéristiques et qui se referment et cherchent des solutions indigènes, fuyant la dimension planétaire ; la seconde est celle de la recherche d’espaces communs de dialogue, n’effaçant pas les points en faveur de la société ouverte, prenant acte à la fois des bénéfices apportés par la mondialisation et des risques qui découlent de ses limites, aujourd’hui proclamées. Nous sommes en faveur d’une stratégie de dialogue et de durabilité systémique : nous essaierons d’argumenter sur ce point.
Notre point de départ est que nous ne pouvons pas raisonner sur la durabilité sans problématiser les paradigmes du vingtième siècle dont nous avons hérité et qui ont servi à traiter les questions stratégiques dans un monde qui n’existe plus. La prolifération des sujets stratégiques, tant étatiques que non étatiques, et la fluidité des processus historiques nous appellent à de nouvelles responsabilités de médiation et de vision et au début d’un grand processus de refonte de ce que nous appelons la politique.
Le chemin que nous empruntons mûrit sur le terrain d’une complexité croissante. Il est difficile de comprendre le point autour duquel une réflexion systémique devrait s’articuler : il existe une confusion évidente qui génère un besoin manifeste de simplification, de séparation et de certitude. Beaucoup semblent s’être abandonnés à cette dérive jugée inévitable et, aplatis par l’imminence du présent, imaginent que le jeu stratégique n’est que concurrentiel : entre démocraties et autocraties ; entre croissance et décroissance ; entre État et marché. Il ne peut en être ainsi, car la durabilité systémique ne peut évoluer, même dans les contradictions qui sont les nôtres, que dans le cadre d’une approche de projet qui, sans nier la concurrence entre les intérêts en présence, comprend l’urgence d’espaces de rencontre et de dialogue au-delà de l’imminence.
Nous pensons qu’il est décisif de se concentrer sur les contradictions qui nous appartiennent. C’est l’humanité elle-même, en effet, qui construit les conditions de son avancée comme de son recul : nous sommes le bien et le mal, la paix et la guerre, les perspectives de renaissance et celles d’autodestruction. Ce n’est que si nous en sommes conscients que nous pouvons regarder au-delà : dire que personne ne peut se poser en juge de l’histoire, c’est reconnaître que nous avons tous une part de responsabilité dans ce que nous voyons encore se produire, de façon dramatique, dans le premier quart du XXIe siècle. En reconnaissant cela, il faut clairement affirmer que l’invasion russe de l’Ukraine est inacceptable, qu’elle est en dehors des normes du droit international et que la résistance (celle du peuple ukrainien comme celle de tous les autres peuples indignés et opprimés dans le monde) doit être soutenue (et pas seulement en paroles).
Cependant, l’histoire parle d’elle-même et nous ne pouvons pas la nier : les événements des trente dernières années, qui ont suivi l’implosion de l’Union soviétique, auraient dû nous faire réfléchir à la nécessité d’adopter de nouvelles approches face à la complexité qui se développait : il s’agissait, et il s’agit toujours, d’une complexité systémique et, dans de nombreux cas, les classes dirigeantes ont répondu, et continuent de répondre, par des options que nous définissons comme géo-A-politique.
Nous pensons que le moment est venu de nous transformer dans le cadre de la grande transformation en cours. Il n’est pas possible de continuer à prendre parti entre l’option d’une compétition permanente exaspérée, dans le cadre d’une économie de guerre objective, et l’idée d’une coopération stérile dans le cadre de l’idée d’un monde bon qui n’existe pas dans les faits. Le véritable enjeu est la prise de conscience des rapports de force, à partir de leur non-négation.
Nous écrivons sur un pouvoir qui, progressivement, devient plus fluide et concerne des systèmes que nous peinons à reconnaître comme ceux qui déterminent nos vies : un exemple est la révolution technologique, qui transforme réellement nos vies, la coexistence humaine, la nature des États et les relations entre eux, jusqu’aux relations internationales. Le pouvoir, par essence, est de plus en plus là où on ne le voit pas, de plus en plus intangible. Nous savons, parce que de nombreuses analyses nous le disent, que l’intelligence artificielle et ses frontières progressivement déplacées vers l’avant affectent désormais tous les domaines : de la santé à la gouvernance des villes et des territoires, du travail à la qualité démocratique, en passant par l’art. C’est une puissance invisible mais qui détermine lourdement et profondément : une puissance, donc, dont nous voyons les effets mais dont nous ne comprenons pas l’origine, le moteur.
Nous sommes les héritiers de la puissance étatique mais, depuis trente ans, nous n’avons pas raisonné sur sa réforme dans la transformation de l’environnement géostratégique. Nous voyons là l’origine d’une géo-A-politique qui correspond au retour des histoires, à la fin de l’illusoire fin de l’histoire qui avait passionné les esprits et les âmes après l’implosion de l’Union soviétique.