La questione delle migrazioni porta con sé tutte le caratteristiche del cambio-di-era. E’ molto facile scriverne, o parlarne, quando non si ha la responsabilità politico-istituzionale di decidere nel merito. Un dato è chiaro, almeno a chi scrive: il problema non può più essere trattato come oggetto di campagna elettorale permanente.
Rispetto alle migrazioni, ci sono diverse dimensioni che vanno considerate contemporaneamente (complessità del fenomeno): la prima, solo limitandoci al nostro cortile di casa, è il rapporto strategico, e di medio-lungo periodo, tra Africa ed Europa; la seconda è come affrontare il fenomeno migratorio, con quale approccio culturale; la terza è capire le ragioni dei migranti; la quarta è considerare come le migrazioni trasformino le nostre società (il migrare non è neutro).
Occorre, anzitutto, evitare le semplificazioni. Lo dicono in molti, e a ragione, che non possono essere esistere soluzioni à-la-carte per problemi complessi (sul tema delle migrazioni, in particolare, le soluzioni possono nascere soltanto fuori dagli approcci lineari e solo securitari). Non foss’altro perché, dalla geopolitica al malcontento del cittadino qualunque che si trova a condividere il proprio spazio vitale con persone che vive come ‘altri’, ogni cambiamento ‘non accompagnato’ scatena immediatamente la voglia d’immunizzazione, di chiusura in sé, di difesa da minaccia esterna. E’ tutto umano, molto umano.
Detto questo, e rispettando le aspettative dei nostri concittadini, gli intellettuali hanno il dovere di non mentire: come la rivoluzione tecnologica non si può arrestare ma solo comprendere e governare, altrettanto succede per le migrazioni. Non è dato uomo che non sia migrante. Le classi dirigenti, su questo punto, dovrebbero ritrovarsi nella consapevolezza che il vero tavolo politico-strategico è chiedersi come saranno le nostre società fra trent’anni: su quella base, senza lasciarsi prendere dal presente imminente (siamo dentro un cambio-di-era ma non dentro un’invasione), chi governa e chi fa opposizione dovrebbe schierare demografi, scienziati politici, economisti, diplomatici, imprenditori, esperti di tecnologie critiche, analisti geopolitici, esperti di evoluzione istituzionale, studiosi di mercato del lavoro, urbanisti, rappresentanti delle Chiese, psicologi, antropologi, filosofi, mediatori culturali per costruire scenari di convivenza possibile. Le migrazioni sono un paradigma per immaginare il ‘chi diventiamo’ nel futuro già presente.
Continueremo a scriverne. Ciò che va sottolineato, in questo primo contributo, è che le migrazioni possono essere l’occasione per lavorare sulla sostenibilità sistemica, lasciandosi percorrere dal pensiero complesso e ricordando alla politica, di qualunque schieramento, che ci sono temi che prescindono dall’appartenenza. Qualcuno dirà che è urlando sulle migrazioni che si vincono le elezioni: purtroppo è vero ma, altrettanto, la realtà evolve a prescindere dalle nostre convinzioni. E prende cammini spesso inattesi.
(English version)
The issue of migration carries with it all the characteristics of a change-of-era. It is very easy to write about it, or talk about it, without experiencing the political-institutional responsibility to decide on the merits. One thing is clear, at least to the writer: the issue can no longer be treated as a permanent election campaign object.
Speaking about migration, there are several dimensions that need to be considered simultaneously (complexity of the phenomenon): the first, just limiting ourselves to our own backyard, is the strategic, and medium to long term, relationship between Africa and Europe; the second is how to deal with the migration phenomenon, with what cultural approach; the third is to understand the reasons of migrants; the fourth is to consider how migration transforms our societies (migration is not neutral).
First of all, simplifications must be avoided. Many people say, and rightly so, that there can be no à-la-carte solutions to complex problems (on the issue of migration, in particular, solutions can only arise outside of linear and merely securitarian approaches). If only because, from geopolitics to the discontent of the ordinary citizen who finds himself sharing his living space with people he experiences as ‘others’, any ‘unaccompanied’ change immediately triggers the desire for immunisation, for closure within oneself, for defence against external threats. It is all human, very human.
Having said this, and respecting the expectations of our fellow citizens, intellectuals have a duty not to lie: just as the technological revolution cannot be stopped but only understood and governed, so too can migration. There is no man who is not a migrant. The ruling classes, on this point, should come to the realisation that the real political-strategic table is working on what our societies will be like thirty years from now: on that basis, without getting caught up in the imminent present (we are inside a change-of-era but not inside an invasion), those who govern and those who oppose should deploy demographers, political scientists, economists, diplomats, entrepreneurs, critical technology experts, geopolitical analysts, institutional evolution experts, labour market scholars, urban planners, church representatives, psychologists, anthropologists, philosophers, cultural mediators to build scenarios of possible coexistence. Migration is a paradigm for imagining ‘who we become’ in the future that is already present.
We will continue to write about it. What must be emphasised, in this first contribution, is that migrations can be an opportunity to work on systemic sustainability, allowing oneself to be carried away by complex thinking and reminding politics, of whatever line-up, that there are issues that do not depend on affiliation. Some will say that it is necessary to shout about migration to win elections: unfortunately this is true but, equally, reality evolves regardless of our beliefs. And it takes often unexpected paths.