(Carlo Rebecchi)
Che quello tra Israele e Hamas sia un dialogo tra sordi, un non-dialogo, è scontato né potrebbe essere differente, dopo l’attacco del 7 ottobre scorso. Che di dialogo tra sordi si parli invece – come sta avvenendo in questi giorni – a proposito dei rapporti tra il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, non è soltanto una novità ma, per alcuni, addirittura una preoccupante anomalia. Nei primi due mesi dopo l’inizio della guerra scatenata da Hamas, Biden e Netanyahu si erano sentiti praticamente ogni due giorni. Poi, poco a poco, quel rapporto si è inaridito. Netanyahu e il principale alleato di Israele, stando ai documenti pubblici, non si parlano dal 27 dicembre. Quando, secondo indiscrezioni, il titolare della Casa Bianca avrebbe concluso la conversazione con un freddo “La nostra telefonata finisce qui”.
“Vediamo evidentemente le cose in una maniera differente” ha risposto ieri ai giornalisti il portavoce del Consiglio nazionale di sicurezza, John Kirby, con un understatement diplomatico che conferma più di tante parole il delicato momento dei rapporti tra Stati Uniti e Israele. Si tratta di un corto-circuito che non può non preoccupare. Tutt’intorno ad Israele si sta ampliando infatti un clima di tensione che, anche se tutti gli osservatori ripetono che nessuno ha interesse a trasformare il confronto con Hamas in una guerra regionale, non potrebbe essere più minaccioso. Hezbollah ai confini col Libano, gli attacchi degli Houthi yemeniti alle navi commerciali nel Mar Rosso, quelli tra il Pakistan e l’Iran. Un passo falso, e l’intera area del Medio Oriente e del Golfo potrebbe prendere fuoco.
L’urgenza almeno di una tregua a Gaza è sotto gli occhi di tutti, anche perché a farne le spese è soprattutto la popolazione civile palestinese. L’hanno sollecitata in tanti, compresi anche molti amici di Israele, ma finora Netanyahu non ha ascoltato nessuno, nemmeno Biden. Con il quale il premier israeliano è in aperto contrasto anche sulla necessità, a guerra finita, di dare attuazione all’unico progetto sul quale c’è un diffuso sostegno politico internazionale, quello che prevede la nascita dello Stato palestinese accanto a quello israeliano, linea ribadita a Davos dal segretario di Stato Usa Antony Blinken.
Gli analisti si interrogano, senza però aver trovato finora una risposta plausibile, su quale possa essere la strategia di Netanyahu per ristabilire la stabilità nella regione quando il conflitto con Hamas sarà finito. Blinken ha confermato che la condizione ‘sine qua non’ degli USA sono i due Stati, se non altro perché nessuno ha un’idea migliore. Per Netanyahu non è la strada giusta: Israele, ha appena ribadito, “deve avere il controllo della sicurezza sull’insieme del territorio ad Ovest del Giordano. (…) Ci saranno ancora molti mesi di guerra, e dopo non ci sarà uno Stato Palestinese”. Il dialogo è apparentemente tra sordi. A meno di sviluppi, al momento imprevedibili, determinati dalle elezioni presidenziali di novembre negli Usa o dalla politica interna israeliana.
(English version)
It is obvious that the dialogue between Israel and Hamas is a dialogue between the deaf, a non-dialogue, nor could it be different after the attack of 7 October. That dialogue between the deaf is instead being talked about – as is happening in recent days – in relation to the relationship between US President Joe Biden and Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu, is not only new but, for some, even a worrying anomaly. In the first two months after the start of the war unleashed by Hamas, Biden and Netanyahu spoke practically every two days. Then, little by little, that relationship dried up. Netanyahu and Israel’s main ally have not spoken to each other since December 27, according to public documents. When, according to rumors, the owner of the White House ended the conversation with a cold “Our phone call ends here”. “We obviously see things in a different way” the spokesperson of the National Security Council, John Kirby, responded to journalists yesterday, with a diplomatic understatement that confirms more than many words the delicate moment in relations between the United States and Israel. This is a short circuit that cannot fail to cause concern. In fact, a climate of tension is growing all around Israel which, even if all observers repeat that no one has an interest in transforming the confrontation with Hamas into a regional war, could not be more threatening. Hezbollah on the border with Lebanon, the attacks by the Yemeni Houthis on commercial ships in the Red Sea, those between Pakistan and Iran. One misstep, and the entire Middle East and Gulf area could catch fire. The urgency of at least a truce in Gaza is there for all to see, also because it is above all the Palestinian civilian population who will pay the price. Many have called for it, including many friends of Israel, but so far Netanyahu has not listened to anyone, not even Biden. With whom the Israeli prime minister is also in open conflict on the need, once the war is over, to implement the only project for which there is widespread international political support, the one which envisages the birth of the Palestinian state alongside the Israeli one, line reiterated in Davos by US Secretary of State Antony Blinken. Analysts are wondering, without having so far found a plausible answer, what Netanyahu’s strategy could be to re-establish stability in the region when the conflict with Hamas is over. Blinken confirmed that the ‘sine qua non’ of the USA is two states, if only because no one has a better idea. For Netanyahu it is not the right path: Israel, he has just reiterated, “must have control of security over the entire territory west of the Jordan. (…) There will still be many months of war, and after that there will not be a Palestinian state”. The dialogue is apparently between the deaf. Barring developments, currently unpredictable, determined by the November presidential elections in the US or by internal Israeli politics.
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