In una fase storica come l’attuale, di grande trasformazione, la tentazione burocratica e centralizzatrice è dietro l’angolo. Lo è per gli Stati, democratici e non, fino ai partiti politici.
C’è paura degli spazi aperti, tanto evocati e promossi dopo la fine dell’ultimo totalitarismo del ‘900 quando sembrava che la storia fosse finita. Non è andata così. Abbiamo aperto le società, lasciato che i flussi globali le inondassero ma non abbiamo operato alcuna mediazione politica: così abbiamo creato le condizioni per la paura e per le separazioni che viviamo oggi.
Dicevamo, circa 30 anni fa, che l’apertura dei mondi avrebbe diffuso la democrazia e che il mercato avrebbe sistemato tutto. La politica si è messa da parte, inattiva osservatrice di altre forze che tentavano di realizzare il progetto, troppo lineare per essere vero, della fine della storia.
E’ successo, progressivamente, che gli interessi nazionali – e con essi le identità – sono prepotentemente tornati e si sono imposti. Sono venute a mancare la fiducia, le possibilità di relazione, l’autocritica per il dialogo: tutte queste assenze, sintetizzabili nella parola politica, hanno sclerotizzato le strutture e il dibattito e hanno diviso le società e i mondi in chiarissimi (mai nella realtà) assi del bene e del male.
La fiducia è il bene più prezioso e più politico a disposizione di noi esseri umani. Mentre tutti rincorrono un centro del mondo concordando alleanze tattiche e di convenienza, trascurando le periferie esistenziali dove vive la vita vera, la grande trasformazione corre: la policrisi de-generativa lavora nel profondo, la guerra mondiale ‘a pezzi’ esplode ogni giorno di più, la rivoluzione tecnologica penetra in ogni ambito delle nostre vite. Eppure, in tutto questo, la fiducia latita e le chiusure autarchiche insistono. Diagnosticata la malattia, peraltro in progress, serve la cura: ma la medicina, ancora ben poco diffusa, è il pensiero complesso e politico per governare il futuro già presente.
(English version)
In a historical phase such as the present, of great transformation, the bureaucratic and centralising temptation is just around the corner. It is so for States, democratic and otherwise, right down to political parties.
There is a fear of open spaces, so much evoked and promoted after the end of the last totalitarianism of the 20th century when it seemed that history was over. That was not the case. We have opened up societies, let global flows flood them, but we have done no political mediation: thus we have created the conditions for the fear and the separations we experience today.
We used to say, some 30 years ago, that the opening of the worlds would spread democracy and that the market would fix everything. Politics stood aside, inactive observer of other forces trying to realise the project, too linear to be true, of the end of history.
It happened, gradually, that national interests – and with them identities – came back and asserted themselves. There has been a lack of trust, of possibilities for relationships, of self-criticism for dialogue: all these absences, which can be summed up in the word politics, have scleroticised structures and debate and divided societies and worlds into very clear (never in reality) axes of good and evil.
Trust is the most precious and most political asset available to us human beings. While everyone chases after a world centre by agreeing on tactical alliances of convenience, neglecting the existential peripheries where real life lives, the great transformation races on: the de-generational polycrisis works in the depths, the world war ‘in pieces’ explodes more and more every day, the technological revolution penetrates every sphere of our lives. And yet, in all this, trust absconds and autarkic closures insist. Having diagnosed the disease, which is, moreover, in progress, the cure is needed: but medicine, which is still not widespread, is the complex and political thinking to govern the future that is already present.