(di Marco Emanuele)
Quando si avvia un progetto di ricerca molte sono le attese e, mano a mano che ci si pensa, altrettanti sono i dubbi e le incertezze. Questo lavoro è impostato come un cammino che tenta di rispondere a una domanda: di cosa ha bisogno il mondo ?
Qualcuno dirà che la domanda è troppo pretenziosa ma, nelle mie intenzioni, il presente cammino ha il sapore di un impegno di vita. Il livello a cui siamo arrivati mi fa dire, con preoccupato realismo, che non basta più arrovellarsi nella cassetta degli attrezzi culturale che conoscevamo. Un monito viene dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina: nulla sarà più come prima.
Ho avuto la fortuna di incontrare uomini straordinari. Ne cito tre: Ernesto Baroni, il mio Maestro di vita e di formazione grazie al quale ho maturato il rapporto persona-comunità, Edgar Morin, l’uomo della complessità, Raimon Panikkar, l’intellettuale-nei-mondi che mi ha portato nel cuore del dialogo. Tornerò su ciascuno di loro, portando nella riflessione gli elementi del loro pensiero che mi hanno reso, con mia esclusiva responsabilità, ciò che sono oggi. E’ venuto il tempo, umilmente, di restituire loro una piccola parte di ciò che mi hanno dato. Tutti loro mi hanno insegnato l’importanza del pensiero critico, sistemico, complesso e, soprattutto, dell’esperienza.
Di cosa ha bisogno il mondo ? Credo, arrivando al nocciolo della questione, che al mondo manchino mediazioni e visioni di civiltà.
Scrivo di mediazioni e di visioni perché non mi sfugge la dimensione del “mentre” dei processi storici. Se c’è una guerra occorre pensare a come fermarla, se c’è una crisi economica occorre attrezzarsi per uscirne, e così via; il punto di questa ricerca è il “come” gestire le transizioni e, soprattutto, verso quale prospettiva, con quale visione. (1)
Qui non si teorizza una prospettiva definita, una civiltà “compiuta” perché la nostra storia ci insegna che il percorso è pieno d’imprevisti e che quasi mai prevalgono la linearità e la causalità. Insomma, il cammino si fa camminando. Intendo percorrere quelle che Edgar Morin (2012) chiama le vie riformatrici che sono correlate, interagenti, interdipendenti.
Parliamo di civiltà. Qui intendo la parola come flusso e non rispetto “alle” civiltà che si sono succedute nel corso della storia: inoltre, parlo di civiltà per argomentare che la stessa (che comprende la barbarie) è l’evoluzione dell’umanità nel suo essere meticcia (soprattutto nell’era planetaria). (2) Si tratta di un percorso complesso perché la civiltà è un work-in-progress, continua trasformazione nella contaminazione-fecondazione reciproca.
Scrive Christopher Coker (2020): (…) di nessuna civiltà è possibile individuare qualcosa di simile a un’essenza o a un nucleo fondamentale. Nelle parole dello storico Paul Veyne, nessuna civiltà ha delle “radici” storiche. Il suo carattere, nella misura in cui ne ha uno, è in gran parte eterogeneo, contraddittorio, poliformo e policromo. Normalmente, lo sappiamo, i “tenutari” dei regimi la pensano diversamente e usano i “miti fondativi” come “arma” potenziale contro il nemico vero o presunto. Gli esempi sono molti, e diversi. Non solo Cina e Russia ma anche le democrazie liberali: ciascuno, naturalmente, con caratteristiche, intensità e finalità ben differenti.
Per restare nei tempi che viviamo, Chistopher Coker (2020) invita a rileggere il documento “La strategia di sicurezza nazionale della Russia fino al 2020”. Sottolinea l’Autore: Come nota Daniel Payne, abbiamo a che fare con qualcosa di completamente nuovo nel contesto della politica internazionale, ma molto attinente alla nozione di Stato-civiltà: l’idea che ogni società debba anche difendere la propria “sicurezza spirituale”. Ne viene, com’è evidente, un disegno geo-strategico. (3) (4) (5)
C’è una identità dinamica di civiltà che si incarna nei differenti contesti di vita. Identità che evolve, e inolve, dentro la relazione connessioni – conoscenza – ri-nascita. Investire sulla conoscenza, nella realtà (iper) connessa che viviamo, per ri-nascere (nascere continuamente in nuovi futuri), è ciò che fa la differenza. (6) Siamo dentro un processo complesso perché la relazione richiamata mai è lineare. Evocare la dinamicità è tutt’altro che uno sterile esercizio intellettuale.
E’ venuto il tempo di una reciproca auto-critica. L’essere identitariamente dinamici passa dal coraggio di guardarsi dentro, di domandarsi quanto di ciò che siamo stati, e che siamo, possa essere salvato per definire ciò che saremo (7) nel quadro di un mondo alla spasmodica ricerca di un ordine: un mondo che, dal crollo del muro di Berlino a oggi, non ha saputo mediare efficacemente i rapporti di forza e trovare il terreno comune per visioni il più possibile con-divise, salvaguardando le differenze. Se, negli ultimi decenni, si è visto emergere il substrato della società-mondo, altrettanto è mancata l’anima politica: si intende il tema del governo-nella-storia, quell’architettura dinamica che, dopo la fine della guerra fredda, avrebbe dovuto sostenere il cammino dell’unità/diversità del quadro “glocale”.
La radicalizzazione della e nella “propria” civiltà è un rischio ormai evidente che può essere superato solo se tutti, nessuno escluso, danno inizio a un grande processo di auto-critica come fattore strategico di civiltà. Analisi che non tengano conto dell’aspetto di auto-critica servono solo a legittimare atti lineari da parte di classi dirigenti che rifiutano la complessità e agiscono in nome di una linearità diversamente declinata a seconda di chi la adotta.
Siamo nel pieno di una crisi de-generativa del paradigma politico. Soprattutto in conseguenza della rivoluzione tecnologica, il pensiero e l’azione – in termini strategici – sono in piena metamorfosi. Accorgercene, in termini di ri-pensamento per la ri-fondazione del paradigma politico, è ormai indispensabile. Così scrive Luciano Floridi (2022, p.25): Sembra impossibile trovare un qualsiasi aspetto della nostra vita che non sia stato influenzato dalla rivoluzione digitale. A maggior ragione, nel pieno di tale rivoluzione, l’approccio complesso è l’unico realisticamente possibile.
La rivoluzione tecnologica, in un quadro di riferimento glocale, deve combinarsi con l’elemento geografico. Quando dico glocale, infatti, mi riferisco ai dove dell’esperienza umana, i luoghi nei quali l’umanità vive e opera, trasforma e si trasforma: così, lavorando nella relazione connessioni – conoscenza – ri-nascita, la tecnologia della scienza del dove risulta decisiva. Si pensi, solo a esempio, alle nostre città. Tale tecnologia-nei-dove ci aiuta a governare i dati delle metamorfosi territoriali: tale governo è impossibile senza la tecnologia. La partita dei dati che generiamo è un fattore strategico. Scrive Floridi (2022, p.24): Secondo la società di analisi di mercato IDC, nel 2018 abbiamo raggiunto 18 zettabyte di dati creati, catturati o riprodotti, e questa sorprendente crescita di dati non mostra segni di rallentamento: a quanto pare, diventeranno 175 zettabyte nel 2025.
Continuo a lavorare, senza aspirazioni di compiutezza, al tema di un progetto di civiltà. Gli elementi qui sommariamente descritti sono quelli da approfondire, in una realistica visione.
Note
(1) Morin, 2012, p. 29: (…) l’arte politica, quella che si dà come missione non solo di realizzare un ideale umano di libertà, di uguaglianza, di fraternità, ma anche di aprire la Via che salverebbe l’umanità dal disastro, deve venire a patti con il reale per modificarlo. Deve guardarsi dal sogno utopico dell’armonia sulla Terra, ma anche dal realismo che ignora che l’oggi è provvisorio. L’arte politica è quindi costretta a navigare fra “real-politik” e “ideal-politik”. Deve essere in autoesame e in autocritica permanenti. Continua l’Autore, p. 30: Il pensiero politico è al suo grado zero. Ignora i lavori sul divenire delle società e sul divenire del mondo. “La marcia del mondo ha smesso di essere pensata dalla classe politica”, afferma l’economista Jean-Luc Gréau. La classe politica si accontenta dei rapporti di esperti, delle statistiche e dei sondaggi. Non ha più pensiero. Non ha più cultura. Non sa che Shakespeare la riguarda. Ignora le scienze umane. Ignora i metodi che sarebbero adatti a concepire e a trattare la complessità del mondo, a legare il locale al globale, il particolare al generale. E’ interessante questo passaggio di Morin sulla “politica dell’umanità”, p. 35: La politica dell’umanità implica il rispetto dell’autonomia delle società, pur includendole negli scambi e nelle interazioni planetarie. Così essa incita all’autonomia alimentare per i prodotti di base e (…) a rafforzare il locale, il regionale, il nazionale e, nello stesso tempo, il mondiale.
(2) Morin, 2012, p. 37: Con i suoi molteplici viaggi, scambi e i suoi nuovi flussi migratori, l’era planetaria apre una nuova era di meticciati. Ai meticciati genetici si aggiungono o si combinano i meticciati culturali. Sottolinea l’Autore, p. 38: I meticciati e le simbiosi (genetici, etnici, culturali) sono, nello stesso tempo, unificanti e diversificanti. Quelli dell’era planetaria contribuiscono alla formazione e allo sviluppo di un’ampia cultura planetaria dalle forme più diversificate.
(3) Coker, 2020, pp. 185 e 186: “Siamo tutti emersi insieme dalla preziosa Kiev “da cui è iniziata la terra russa”, secondo la cronaca di Nesotre”, scrive Solzenicyn. Sostiene che, in Lituania e Polonia, “i russi bianchi (i bielorussi) e i piccoli russi (gli ucraini) riconobbero di essere russi e combatterono contro la polonizzazione e il cattolicesimo. (…) Il ritorno di queste terre alla Russia dell’epoca fu considerato da tutti come una “riunificazione”. (Robert Coalson, Is Putin ‘Rebuilding Russia’ According To Solzhenitsyn’s Design? (rferl.org), 1° settembre 2014). Il Russky Mir (“mondo russo”), afferma Putin, non è definito da nessuna categoria occidentale come l’auto-determinazione (etnica o di altro tipo) ma dal sangue, il sangue che i russi hanno versato nel corso dei secoli per mantenere il “mondo” russo unito, e soprattutto il sangue versato nella grande guerra patriottica. In altre parole, esiste un mondo russo più grande della Federazione Russa. E vista la grande diaspora russa che vive al di fuori della stessa Russia, l’unica protezione possibile è una “difesa avanzata”. Quando Dimitrij Medvedev era presidente, delineò uno dei nuovi obiettivi politici della Russia: quello di creare una “sfera di civiltà” che includesse i paesi con significative minoranze russe. Quando un giornalista gli chiese se ritenesse che le sanzioni fossero il prezzo che la Russia doveva pagare per l’annessione illegale della Crimea, Putin rispose che era il prezzo che il popolo russo doveva pagare per “sopravvivere come civiltà”. A Putin piace ricordare all’Occidente che i russi costituiscono il più grande gruppo etnico diviso da confini statali al mondo e che la protezione del loro patrimonio culturale deve essere una delle priorità dello Stato stesso. Il che, se vi capita di essere cittadini di un paese confinante con una significativa minoranza russa, non è proprio rassicurante.
(4) Coker, 2020, pp. 189 e 190: Lo Stato russo preferisce quella che chiama la “specificità” della civiltà russa, fondata sui valori morali, religiosi e storici del paese (…) Già nel 1780 gli aristocratici russi venivano avvertiti che mandare i loro figli all’estero a studiare avrebbe indebolito il loro amore per la Russia. Gli scrittori allora proponevano addirittura la “de-occidentalizzazione” della propria classe media al fine di farla riconnettere con i veri valori spirituali del paese. Nulla, quindi, sembrerebbe essere cambiato. Anche questo è un aspetto della storia “ininterrotta” della Russia.
(5) Coker, 2020, pp. 270-271-272, si domanda: Ma i russi hanno una visione costruttiva alternativa dell’ordine mondiale ? Cosa vuole veramente Putin ? Vuole tornare al modello della Conferenza di Yalta, quando gli alleati si ricavarono “sfere di influenza” separate ? Vuole ripristinare l’equilibrio di potere europeo del 1944 ? Oppure vuole ristabilire una cortina di ferro che separi due blocchi ideologici e gli permetta di avere una propria “zona di interesse civilizzato privilegiato” (nella consapevolezza che i suoi interessi privilegiati si estendono ben al di là della Federazione Russa” ? Il punto di vista russo è chiarissimo su questo punto. Aderisce al diritto internazionale solo per un motivo: difendere gli interessi russi e non i valori di una “comunità internazionale” fittizia o di una “società civile globale” ancora più fittizia. Un primo esempio di ciò fu il tentativo, nel 2002-2003, di far passare la propria interpretazione della legge in una risoluzione delle Nazioni Unite sul mantenimento della pace. La logica di fondo era abbastanza semplice: ogni volta che le Nazioni Unite avessero proposto di inviare delle forze di pace in un paese, avrebbero dovuto chiedere l’approvazione agli Stati vicini. In questo modo, la Russia avrebbe potuto porre il veto a qualsiasi intervento nella “sua” regione, il cosiddetto “Near Abroad” (“vicino estero”). Putin vorrebbe cambiare l’ordine internazionale, ma non è abbastanza potente per farlo. Di conseguenza è stato costretto a trovare un compromesso: tornare al futuro, al concerto delle potenze del XIX secolo. E, in assenza di un sufficiente peso economico o diplomatico, è stato costretto a ripensare la guerra. La guerra ibrida, afferma Fyodor Lukyanov, è semplicemente un tentativo da parte di realisti classici come Putin di trovare un modo per affrontare le complessità di un mondo in cui la nozione di “potere” è diventata molto più fluida e il cui uso può produrre effetti non lineari. Quelle che l’Occidente interpreta come “aggressioni” da parte della Russia – dall’intervento militare in Georgia nel 2008 alle operazioni ibride in Ucraina sei anni dopo – andrebbero piuttosto viste come l’espressione di una volontà di ristabilire il principio della sovranità nazionale. In seguito alla guerra fredda, l’Occidente ha cercato di ridefinire la sovranità in un modo che le consentisse di intervenire negli affari interni di altri paesi, solitamente nel nome dei diritti umani e del diritto di proteggere i cittadini dei propri governi. Oggi la Russia si trova in una posizione molto migliore per difendere le vecchie regole. Qualunque sia l’interpretazione per la quale propendiamo, scrive Lukyanov, “l’era della restaurazione è finita; è tempo di iniziare a costruire un mondo nuovo”.
(6) Morin (2012, p.46) scrive: Lo straordinario progresso delle conoscenze è accompagnato da un regresso della conoscenza attraverso il dominio del pensiero parcellizzato e compartimentato a scapito di ogni visione d’insieme. Così gli sviluppi della nostra civiltà portano a un nuovo sottosviluppo intellettuale, a un nuovo sottosviluppo affettivo (…) e a un nuovo sottosviluppo morale nella degradazione congiunta della responsabilità e della solidarietà. Infine, la fioritura democratica nell’Europa occidentale, dopo la Seconda guerra mondiale, è stata intaccata da regressioni democratiche: spossessamento dei cittadini da parte degli esperti e dei tecnici, crisi delle “ideologie” – di fatto, degli ideali e dei progetti -, degrado del civismo sotto l’effetto del degrado della solidarietà e della responsabilità.
(7) Morin (2012, p. 39) sottolinea il percorso verso un umanesimo planetario e scrive della necessità di incorporare il meglio delle culture arcaiche, il meglio delle culture tradizionali, il meglio della modernità occidentale.
Bibliografia in progress
- Christopher Coker, Lo scontro degli Stati-Civiltà, Fazi Editori, Roma 2020
- Luciano Floridi, Etica dell’intelligenza artificiale. Sviluppi, opportunità, sfide, Raffaello Cortina Editore, Milano 2022
- Jacques Lévine, Fiction et déliason, in Art et thérapie, 48/49, 1993
- J. Lévine, M.Develay, Pour una antropologie des savoirs scolaires, ESF, Paris 2003
- Edgar Morin, La via. Per l’avvenire dell’umanità, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012
- Michel Sablet, Des Espaces urbains, agréables à vivre, places, rues, squares et jardins, Ed. du Moniteur, Paris 1991