Non è più e non è ancora: questo sembra essere lo stato, nel terzo millennio, di ciò che chiamiamo “ordine mondiale”. Il ‘900, secolo finito ma non nella testa di tutti, è ancora lì a mostrarci gli effetti pesanti, a volte tragici, dei suoi nodi irrisolti. Se l’ordine che conoscevamo non è più possibile perché sono radicalmente mutate le condizioni storiche, un altro ordine non si vede all’orizzonte. Gli anni che ci separano dall’implosione dell’Unione Sovietica sono straordinariamente interessanti e rappresentano il periodo storico che dovremo, cammin facendo, ripercorrere criticamente.
Le definizioni dei politologi e degli esperti di relazioni internazionali si sprecano. Diciamo, con realismo pragmatico, che ci troviamo nel pieno di un mondo a-polare. Altrettanto, siamo immersi in una gigantesca ridefinizione del potere e dei poteri, laddove il potere si è progressivamente distaccato dal “soggetto” Stato, ancora ben presente ma chiamato a condividere l’esercizio del potere con molti altri soggetti. Ciò che notiamo, dentro l’a-polarità, è che il mondo è percorso da una megacrisi de-generativa, che non è sommatoria di crisi settoriali ma la loro interrelazione, e che è in atto, non da oggi, una rivoluzione tecnologica che sta trasformando profondamente le nostre vite dal livello personale al mondo e che, si pensi alle sfide cyber, allarga e trasforma l’ambiente tattico-strategico.
Una delle crisi de-generative più evidenti riguarda il pensiero strategico che intendiamo come la capacità di leggere il mondo in funzione del suo governo politico. La nostra ricerca, work in progress, si concentra sulla re-istituzione di tale pensiero, critico e complesso, in chiave geo-strategica.
Se il potere e i poteri si ridefiniscono, cambiando pelle e facendosi liquidi, diffusi e più pervasivi (perché sempre meno evidenti e prevedibili), il pensiero geo-strategico non può più essere solo lineare, causale e fondato sulle certezze di ciò che è costituito. Su questo punto ci giochiamo il futuro.
Un dato è chiaro, secondo noi. La crescente complessità del mondo e dei mondi non è più comprensibile né governabile con la testa immersa nel ‘900, secolo lunghissimo che ci ha lasciato, con grandi avanzamenti, altrettante cadute: vertice di tali cadute sono stati i totalitarismi, svuotamento dell’umano ad opera dell’umano stesso.
La responsabilità che abbiamo nel terzo millennio, conservando viva la memoria di ciò che è accaduto solo pochi decenni fa e salvaguardando l’esperienza democratica a tutti cara, è di ri-trovare (trovare continuamente) un realismo che, dall’alto e nel profondo, comprenda l’evoluzione-involuzione degli ambienti geo-strategici nei quali siamo chiamati a vivere e, a diverso titolo, a operare.
Siamo indagatori nella complessità e tale condizione non prevede alcuna forma possibile di neutralità rispetto alle dinamiche di una Storia che non finisce. Nulla ci è estraneo e, anzi, il pensiero geo-strategico, critico e complesso, si fonda sull’assunto di dover ri-congiungere ciò che è disperso: questa è la nostra responsabilità oggi.
L’indagare complesso rende il lavoro per un pensiero geo-strategico una esperienza di ri-flessione (flettersi continuamente) nella realtà. Il pensiero è già azione. La Storia ha la sua vera dimensione nel darsi sempre nuovi inizi e noi umani generiamo una quantità talmente ampia di dinamiche che fatichiamo a tenere insieme con la nostra sola intelligenza: le nuove tecnologie, guardandole dal punto di vista delle infinite opportunità che offrono (senza rinunciare ad approfondirne i rischi), ci servono a superare i nostri limiti.
Siamo a un punto in cui, dopo una pandemia e con il ritorno della guerra nel cuore dell’Europa, tutto viene problematizzato e messo in discussione, a cominciare dal modello di interrelazione sistemica planetaria che chiamiamo globalizzazione. Questo è un punto decisivo, che affronteremo, e che ci mostra la difficoltà di uscire dalle secche delle rispettive certezze consolidate: la globalizzazione va ri-pensata, ri-fondata, ri-formata.
L’indagare complesso è politico. L’anima politica è anima della nostra vita e anima del mondo. La politica intesa in senso complesso tiene insieme mediazione e visione, formalità e informalità, prevedibilità e non prevedibilità e si colloca – al contempo – sul piano della de-radicalizzazione del costituito per raccogliere la sfida della re-istituzione. Ci vuole una diplomazia della complessità per uscire progressivamente da ciò che siamo stati, e che tentiamo di difendere pressoché a ogni costo, per entrare nel non ancora conosciuto e tutto da costruire. In questo passaggio, nelle dovute distinzioni, nessuno può essere lasciato fuori: il discorso politico oggi necessario, infatti, riguarda la sostenibilità politico-strategica del mondo.
Si può affrontare la megacrisi de-generativa in atto continuando a escludere parti di mondo assolutamente rilevanti e adottando la tattica dell’o/o in luogo della strategia (complessa) dell’e/e ? Non ci sfugge che questa seconda strada sia ben più ardua e difficoltosa ma crediamo che la posta in gioco sia tale da considerarla l’unica possibile.
Se vale l’obiezione che non tutti i sistemi istituzionali hanno le stesse caratteristiche, e ben lo sappiamo, la messa in “sicurezza” del mondo (che comprende i “nostri” mondi) non può appiattirsi sul mantra “democrazie vs autocrazie”. Gli ultimi decenni dovrebbero averci insegnato, e forse varrebbe la pena impararlo una volta per sempre, che nessuno può ergersi a Giudice della Storia. Oggi più che mai, il tempo storico ci chiama a con-dividere, a dialogare il più possibile, a non soffiare sul fuoco dell’insostenibilità.
L’indagare complesso va finalizzato alla formazione di classi dirigenti nel futuro già presente. Smarrire il senso della complessità è quanto di peggio possa accadere. La formazione superiore, se deve formare specialisti, non può trascurare il respiro della Storia. Non esistono, nella realtà, sfide e problemi settoriali. Preparare classi dirigenti è il tema-dei-temi perché la questione di fondo è la formazione al e nel mosaico complesso di realtà. Qui entra l’università come pluri-versitas e come meta-versitas. Poniamo il problema di una formazione all’interrelazione e, al contempo, alla ri-congiunzione di ciò che è disperso: questa richiede capacità di sguardo d’insieme, creativa, aperta all’inatteso, capace di elaborare scenari alternativi. Una tecnologia ri-generante aiuta a implementare possibilità di governo complesso che passa dalla formazione di classi dirigenti nel futuro già presente. In tal senso, dunque, la formazione è politica.
Indaghiamo e camminiano, esplorando, senza avere certezza di ciò che troveremo. Proprio per questo, la ragione profonda di una ricerca non può che essere nell’oltre di ciò che siamo. Un quadro di domande emergono, e interrogano la nostra capacità di pensare geo-strategicamente, nel considerare la realtà che va formandosi e del chi diventiamo (futuro già presente): perché la rivoluzione tecnologica, la megacrisi de-generativa, la pandemia e la guerra in Ucraina (e le tante guerre in giro per il mondo) ci chiamano a un atteggiamento non più di semplicistico vedere e informarsi ma di osservazione e conoscenza.
Senza la politica vincono diffidenza e paura. E cresce lo smarrimento
Più passano gli anni e più i rapporti a livello internazionale e le condizioni delle nostre società democratiche sembrano de-generare pericolosamente. Di fronte ai tanti tentativi esperiti negli ultimi decenni di costruire “geometrie variabili” tra Paesi amici o con interessi comuni, il dato dell’esasperata ricerca di sicurezza ha rischiosamente acquistato il primo posto e, a farne le spese, è stata soprattutto la fiducia reciproca (nonché, come conseguenza diretta, l’investimento sempre più massiccio sul riarmo). L’ordine di scuderia sembra essere stato quello di avvicinarsi tra fronti contrapposti (democrazie, da una parte, e autocrazie, dall’altra): che si tratti di avvicinamenti tattici o strategici poco importa perché ciò che conta è che viviamo in un mondo non solo a-polare ma, progressivamente, sempre più a-politico e insostenibilmente competitivo.
E’ chiaro come, in queste condizioni, l’assenza di politica e di fiducia non possano che lasciare spazio alla diffidenza e alla paura. Il deterioramento delle relazioni, a livello sociale fino al mondo, è conseguenza diretta di tutto questo. Diffidenza e paura crescono perché non si è lavorato politicamente sull’importanza del conflitto: parola con un destino amaro, come crisi, il conflitto è invece alimento dell’esperienza democratica, a patto che sia compreso e governato. Ciò che non è successo negli ultimi trent’anni in cui abbiamo applicato, in molti ambiti anche molto sensibili, la pratica di una competizione senza cooperazione e senza guardare al bene comune.
In tal modo abbiamo incattivito i conflitti, dividendo(ci) tra autoctoni e stranieri mentre le disuguaglianze crescevano così come la voglia, da parte di autoctoni sempre più radicalizzati, di chiudersi in “fortini” nazionali che la globalizzazione imperante stava non troppo lentamente problematizzando. Tutto si è spostato sulla sicurezza e sulle regole, elevate a dogmi: si pensi all’austerità, messa a terra di un principio lineare di annullamento della creatività istituzionale e caratteristica fondamentale di ciò che si pensa unicamente come costituito. Per lo Stato, l’eccesso di austerità (che è altra cosa dal “tenere i conti in ordine”) ha rappresentato l’inizio dello smantellamento di quel modello di “welfare” che aveva fatto dell’Europa un laboratorio nel mondo.
Diffidenza e paura si saldano nello smarrimento. E torna il tema del potere e dei poteri. A chi si rivolge il cittadino medio che vorrebbe soltanto vivere tranquillo nella “propria” piccola realtà ? Non lo sa, questa è la risposta. Così, in democrazia e il più delle volte inconsapevolmente, le maggioranze fanno politica astenendosi. Ciò che appare una contraddizione non lo è: tra dinamiche che nascono fuori dai “nostri” confini e che diventano sfide locali e con il proliferare di poteri più o meno visibili in competizione, quel cittadino non ha più riferimenti, si ritrova privo di certezze e non riconosce più lo Stato e le istituzioni presso i quali, un tempo, trovava risposte. Ma, e qui sta il nocciolo della questione, la ri-costruzione della speranza passa dal ri-pensamento per la ri-fondazione della politica.
A evitare che questa ricerca finisca nel calderone delle tante teorie senza pragmatismo che si sono susseguite in questi anni, val bene ricordare che abbiamo vissuto anni dentro la grande bolla della negazione-di-realtà. Abbiamo, in poche parole, abdicato a un pensiero politico agente, trasformativo e ri-generante o piegandoci in maniera a-critica a una globalizzazione solo competitiva e omologante o praticando un anti-storico antagonismo rispetto a un progresso che non va condannato ma governato con nuovi paradigmi.
Oggi siamo arrivati a un punto di svolta.