La profonda complessità della pace / The profound complexity of peace

(Marco Emanuele)

Scriviamo mentre si riunisce la sessione straordinaria dell’Assemblea generale dell’ONU per fermare gli attacchi a Gaza

Parola abusata, pace, tutti la vogliono.

Eppure, nel nostro terzo millennio, la pace appare sempre più irraggiungibile. Nelle piazze si urla la voglia di pace ma, a ben guardare, non abbiamo l’animo pacificato e il pensiero non è focalizzato nella realtà complessa dei rapporti di forza in essere.

Perché la pace non si riferisce solo alle guerre (complessità nella complessità). La pace è percorso profondo e sempre ‘in compimento’. Il nostro urlo di pace non deriva dal silenzio ma dal continuo scontro competitivo tra posizioni ‘dogmaticamente’ radicalizzate. Che si parli del destino dei popoli, del male banale, dell’intelligenza artificiale o del clima, il tema è sempre lo stesso: imporre un punto di vista partigiano, di fatto dimenticando che – al di là dell’arena – vi sono le condizioni esistenziali del ‘noi umanità’, c’è la vita vera.

E la pace, ancora, non può nascere nel pensiero lineare e separante. Tutto si tiene e ci illudiamo di poter affrontare ‘una sfida alla volta’: come se le altre sfide aspettassero di entrare sul palcoscenico delle nostre decisioni geostrategiche. Non ci sono più un dentro e un fuori e, soprattutto, non ci sono più confini tra una sfida e l’altra e tra i nostri territori e il mondo.

Quando urliamo la pace, molto spesso con una furia che somiglia a quella bellicista che vorremmo combattere, facciamo (paradossalmente) il gioco della guerra, ne alimentiamo la cultura. E’ giusto manifestare per la pace ma dobbiamo trasformare il pensiero, maturando in ciò di cui stiamo parlando. La Storia ci chiede di essere adulti e consapevoli perché non si potrà avere la pace se non lavorando (come classi dirigenti, in quanto soggetti storici e cittadini) nel mondo che abbiamo: ciò che vediamo e ciò che diventiamo, infatti, dipendono esclusivamente dalla nostra responsabilità.

(English version)

We write as the extraordinary session of the UN General Assembly convenes to stop the attacks on Gaza

Overused word, peace, everyone wants it.

Yet, in our third millennium, peace appears increasingly unattainable. In the squares the desire for peace is shouted out but, upon closer inspection, our souls are not at peace and our thoughts are not focused on the complex reality of existing power relations.

Because peace does not only refer to wars (complexity within complexity). Peace is a profound path and always ‘in progress’. Our cry for peace does not derive from silence but from the continuous competitive clash between ‘dogmatically’ radicalized positions. Whether we talk about the destiny of peoples, banal evil, artificial intelligence or the climate, the theme is always the same: imposing a partisan point of view, effectively forgetting that – beyond the arena – there are the existential conditions of ‘we humanity’, there is real life.

And peace, again, cannot be born in linear and separating thinking. Everything holds together and we delude ourselves that we can face ‘one challenge at a time’: as if the other challenges were waiting to enter the stage of our geostrategic decisions. There is no longer an inside and an outside and, above all, there are no longer any boundaries between one challenge and another and between our territories and the world.

When we shout for peace, very often with a fury that resembles the bellicose fury we would like to fight, we (paradoxically) play the game of war, we fuel its culture. It is right to demonstrate for peace but we must transform our thoughts, maturing in what we are talking about. History asks us to be adults and aware because we cannot have peace unless we work (as ruling classes, as historical subjects and citizens) in the world we have: what we see and what we become depend exclusively on our responsibility.

(riproduzione autorizzata citando la fonte – reproduction authorized citing the source)

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