(Marco Emanuele)
Leggiamo analisi dotte e molto interessanti sulla incapacità dei servizi d’intelligence israeliani di impedire l’attacco di Hamas; ragioniamo sulla società israeliana (compreso l’esercito e, presumibilmente, i servizi d’intelligence) divisa contro il progetto di riforma giudiziaria del governo Netanyahu; cerchiamo di capire la rete d’intrecci (regionali, fino a Mosca) che avrebbero reso Hamas capace di ‘bucare’ il muro di sicurezza altamente tecnologizzato che protegge Israele. Leggiamo anche di come la tecnologia non basti, da sola, a garantire l’immunità dai rischi e di come l’esercito e i servizi d’intelligence israeliani fossero impegnati su più fronti (a cominciare dalla Cisgiordania). Leggiamo, stancamente, di soluzioni immaginate da decenni e che, all’occhio di chi scrive, potrebbero rappresentare una possibile via d’uscita: due popoli, due Stati. Leggiamo, infine, di come si muovono o si dovrebbero muovere (magari smettendola, come sostiene Alberto Negri e come auspichiamo, di considerare il Medio Oriente una sorta di pranzo geopolitico à la carte …) i player internazionali: l’Europa, gli USA, la Turchia, i Paesi del Golfo e del Medio Oriente, la Cina e così via. Leggiamo di grandi iniziative geopolitiche (Accordi di Abramo, Corridoi di connettività) che, pur se rilevantissimi, ‘passano sopra’. Tutto questo, nelle tante analisi che abbiamo a disposizione, trova un’assenza clamorosa, che crediamo vada colmata: quella sorta di ‘destino all’odio’ che caratterizza i popoli israeliano e palestinese.
Perché, va detto con chiarezza, dopo i morti, i feriti e tutti coloro che soffrono gli effetti devastanti della guerra, le vere vittime sono coloro che – ritrovata una nuova normalità (chissà come e chissa quando …) – vivranno perennemente sospesi e/o continueranno a lottare contro una cattiva povertà materiale. In quella sospensione e in quella povertà, abbandonate da una geopolitica che ‘passa sopra’, ci sono le ragioni che invitano i radicalismi a insinuarsi e a riempire i vuoti, in geopolitica come nella vita quotidiana. Si crea, in tal modo, una asimmetria non più sostenibile: mentre i discorsi geopolitici fanno storia a sé, determinando ricomposizioni di rapporti di potere e pretendendo di governare linearmente realtà umane sempre più complesse, il disagio, l’estraniamento, il risentimento e l’odio persistono e diventano sempre più pesanti e profondi.
Il tema è tutto in quella micro-distanza descritta da Domenico Quirico (La Stampa, 12 ottobre 2023) tra i ragazzi che si divertono in un rave party e altri che, illusi e auto-ingannati da terroristi che pretendono di interpretarne il disagio strumentalizzando Dio, li invitano a diventare martiri per seminare un caos non creativo ma solo, e banalmente, mortifero.
Non ci sarà soluzione, storicamente parlando, al destino all’odio dei due popoli, e di tutti i popoli, se la geopolitica non si calerà nel profondo delle esperienze umane. Il resto è solo cronaca, purtroppo sempre la stessa.
(English version)
We read very interesting analyses on the inability of the Israeli intelligence services to prevent the Hamas attack; we reason about the Israeli society (including the army and, presumably, the intelligence services) divided against the Netanyahu government’s judicial reform project; we try to understand the network of intertwined networks (regional, up to Moscow) that would have made Hamas capable of ‘breaking through’ the highly technologised security wall that protects Israel. We also read about how technology alone is not enough to guarantee immunity from risks and how Israeli army and intelligence services were engaged on several fronts (starting with the West Bank). We read, wearily, of solutions that have been imagined for decades and that, to the eye of the writer, could represent a possible way out: two peoples, two States. Finally, we read about how the international players are moving or should move (perhaps ceasing, as Alberto Negri argues and as we hope, to consider the Middle East a sort of geopolitical lunch à la carte …): Europe, the USA, Turkey, the Gulf and Middle Eastern countries, China and so on. We read about major geopolitical initiatives (Abraham Agreements, Connectivity Corridors) that, although very important, ‘pass over’. All this, in the many analyses we have at our disposal, finds a glaring absence, which we believe must be filled: that sort of ‘destiny to hate’ that characterises the Israeli and Palestinian peoples.
Because, it must be made clear, after the dead, the wounded and all those who suffer the devastating effects of the war, the real victims are those who – having found a new normality (who knows how and who knows when …) – will live perpetually suspended and/or continue to struggle against a bad material poverty. In that suspension and in that poverty, abandoned by a geopolitics that ‘passes over’, are the reasons that invite radicalisms to creep in and fill the voids, in geopolitics as in everyday life. This creates an asymmetry that is no longer tenable: while geopolitical discourses make history in their own right, determining recompositions of power relations and claiming to linearly govern increasingly complex human realities, unease, alienation, resentment and hate persist and become increasingly heavy and deep.
The theme is all in that micro-distance described by Domenico Quirico (La Stampa, 12 October 2023) between young people enjoying themselves at a rave party and others who, deluded and self-deceived by terrorists who pretend to interpret their unease by instrumentalising God, invite them to become martyrs in order to sow a chaos that is not creative but only, and banally, deadly.
There will be no solution, historically speaking, to the destiny to hate of the two peoples, and of all peoples, if geopolitics does not descend into the depths of human experience. The rest is just chronicle, unfortunately always the same.
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