Pensare, questo ci chiedono i tempi.
Siamo in una fase storica nella quale una delle parole più evocate è libertà. Non potrebbe essere diversamente, trattandosi della parola più preziosa per ogni essere umano.
Oggi intendo sottolineare la paura che genera il bisogno di libertà. Ciò che va evidenziato sono i segni totalitari che vediamo affacciarsi con sempre maggiore prepotenza.
Sottolineo la parola ‘segni’, volendo circoscrivere il rischio totalitario, e ciò è possibile grazie al radicamento della cultura democratica sulla quale tornerò a fine riflessione.
Due questioni mi hanno colpito: il bisogno della Russia di ostacolare l’attribuzione del Nobel per la Pace all’organizzazione per la difesa dei diritti umani Memorial; la scelta del regime iraniano di confrontarsi con il bisogno di libertà del proprio popolo attraverso la repressione, la violenza, la pena capitale.
Paura della libertà. Paura del pensiero critico che svela il potere, che ne rivela tutte le contraddizioni. Ed è un fatto del tutto umano: Dio non c’entra.
Francesco Cossiga, già Presidente della Repubblica Italiana, ebbe a dire nel 1999 che una delle differenze tra i sistemi autoritari e quelli totalitari è che, in questi ultimi, la creatività è bandita, che tutto deve evolvere secondo un disegno pre-ordinato e non modificabile. La creatività, una delle espressioni storiche della libertà, fa paura: a cominciare dal come ogni essere umano sente di dover vivere la propria amicizia con Dio, con l’altro, con la realtà.
La democrazia, con il suo portato di libertà e giustizia, può fare la differenza solo se ricomincia un serio percorso di auto-critica. Essa è percorsa dai segni totalitari, non ne è immune. Lo ricordava Hannah Arendt e non mancheremo di approfondirlo qui.
Anziché collocarsi sul piano dello scontro solo competitivo con le autocrazie, le democrazie devono prendere a cuore una situazione storica difficile, dalla crescente complessità: ma le democrazie vivono in noi, nella nostra ragione aperta e nel nostro approccio dialogante.
Occorre, dunque, che chi si dice democratico cerchi di vivere davvero la ricerca di una libertà sostanziale, piena, vera. Questo è il tema di fondo di classi dirigenti capaci di incarnare la storia, di leadership diffuse che vogliano davvero far cambiare passo a un mondo insostenibile dal punto politico-strategico: è il tempo del ritorno alla mediazione, al negoziato, alla politica.
English version
Thinking, that is what the times demand of us.
We are in a historical phase in which one of the most evoked words is freedom. It could not be otherwise, since it is the most precious word for every human being.
Today, I intend to highlight the fear that generates the need for freedom. What needs to be highlighted are the totalitarian signs that we see appearing with increasing overbearingness.
I emphasise the word ‘signs’, wanting to circumscribe the totalitarian risk, and this is possible thanks to the entrenchment of the democratic culture to which I will return at the end of my reflection.
Two issues struck me: Russia’s need to obstruct the awarding of the Nobel Peace Prize to the human rights organisation Memorial; the Iranian regime’s choice to confront its people’s need for freedom through repression, violence, capital punishment.
Fear of freedom. Fear of critical thinking that unveils power, that reveals all its contradictions. And it is an entirely human fact: God has nothing to do with it.
Francesco Cossiga, former President of the Italian Republic, said in 1999 that one of the differences between authoritarian and totalitarian systems is that, in the latter, creativity is banned, that everything must evolve according to a pre-ordained and unchangeable design. Creativity, one of the historical expressions of freedom, is frightening: starting with how each human being feels he must live his friendship with God, with the other, with reality.
Democracy, with its bringings of freedom and justice, can only make a difference if it embarks on a serious journey of self-criticism. It is traversed by totalitarian signs, it is not immune to them. Hannah Arendt recalled this and will not fail to elaborate on it here.
Rather than placing themselves on the level of a merely competitive clash with autocracies, democracies must confront with a difficult historical situation of increasing complexity: but democracies live in us, in our open reason and our dialogical approach.
It is therefore necessary for those who call themselves democrats to truly live the quest for substantial, full, true freedom. This is the underlying theme of ruling classes capable of embodying history, of widespread leaderships that really want to make a change of pace in a world that is unsustainable from a political-strategic point of view: it is time for a return to mediation, to negotiation, to politics.