Il pogrom in noi

(Marco Emanuele)

Quando, in anni che sembrano ormai lontanissimi, ponevamo il tema del ‘male banale’ che, contrariamente all’auto-inganno dell’esaltazione democratica in una storia che qualcuno immaginava finita, era in noi e tra noi, venivamo additati come quelli che rimestavano nella spazzatura della storia per non avere a che fare con il presente.

Al di là della nostra piccola voce, chiunque avesse posto – e ponga – la questione del ‘male banale’ lo faceva – e lo fa – in conseguenza di un approccio complesso alla realtà. Molti dicevano, quelli linearmente allineati a una visione unidirezionale del progresso, che occorreva bandire ogni forma, fastidiosa e inutile, di riflessione nella condizione umana perché, sconfitto il totalitarismo sovietico, era venuta l’ora di guardare avanti. Ma, ci dispiace ribadirlo, non eravamo profeti di sventura: le classi dirigenti di oggi, così come molti intellettuali, si trovano tra le mani la patata più bollente di sempre, mai risolta e forse mai risolvibile: i segni totalitari in noi (democratici).

Pogrom o crimini di guerra ? E’ chiaro che il 7 ottobre, da parte di Hamas, si è trattato di un pogrom. Attenzione, però, a non esagerare nella reazione (uno Stato democratico non opera come un gruppo che usa il terrore, qualcosa di più complesso della semplicistica espressione ‘gruppo terroristico’). Ebbene, al di là delle definizioni ci interessano le conseguenze. Ed è proprio nelle conseguenze che vivono, pericolosi, i segni totalitari.

Additare l’ebreo in quanto ebreo. Siamo ancora a questo, decenni dopo la Shoah: ciò significa che, pur con le infinite testimonianze che si sono succedute, pur con tutti i libri che sono stati scritti, pur con tutti i dibattiti che sono stati organizzati, il male vive in noi. Dobbiamo prenderne atto e, se vogliamo salvarci dal male, dobbiamo ri-fletterci nella condizione umana, conoscere, non limitandoci a essere informati. Perché conoscere, con-naitre, significa ri-nascere nell’altro, in ogni altro, al di là di quali siano le sue tensioni culturali, religiose. Dobbiamo ri-nascere in quell’ ‘altro essere umano’ che è altro-di-noi, parte di noi che ancora non conosciamo. L’unico modo per rinascere in ogni altro-di-noi è evitare il gioco della ‘determinazione etnica’, inquadrando l’altro come qualcuno da abbattere e da cancellare in quanto tale: il pogrom, troppo spesso, vive nelle nostre teste.

Soffiare sul fuoco dello scontro di civiltà. Questo significa fare il gioco di chi vuole, e pratica, il terrore. Lo scontro di civiltà rappresenta la morte della politica, della diplomazia, della convivenza: è la fine della mediazione e della visione, è sopravvivenza in un presente imminente e senza respiro storico. Ma quel fuoco è molto attraente, diciamolo, per chi pensa di poterlo cavalcare: ma la realtà, purtroppo, è molto diversa e imprevedibile. Nessuno potrà vincere quel fuoco con altro fuoco. Anzi.

Non abbiamo certezze ma una convinzione, naturalmente percorsa dal dubbio. La prima de-escalation deve avvenire in noi, in ciascuno di noi: se pensassimo, mentre andiamo verso l’intelligenza artificiale generale, che ancora crediamo che qualcuno sulla terra abbia il dovere di scomparire e di morire, forse dovremmo vergognarci, almeno un pò. Lo specchio nel quale ci guardiamo potrebbe risvegliarci sentimenti diversi: il primo, che nessun uomo è Dio e può dare la morte; il secondo che, per meritare la vita, dovremmo lasciarci alle spalle una ‘banale mediocrità’, non più sopportabile né sostenibile.

(riproduzione autorizzata citando la fonte)

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