Il perché di una ricerca

Le prospettive del mondo sono indissolubilmente legate alle prospettive del pensiero. Dopo la caduta del muro di Berlino e l’implosione dell’Unione Sovietica ci ritroviamo in un mondo diviso e disuguale e con un pensiero ancora lineare, escludente e solo competitivo.

Dopo l’ubriacatura per una libertà irresponsabile, i cui effetti si sono visti nei decenni successivi alla data simbolo del 9 novembre 1989, oggi sembriamo vittime di un meccanismo folle e sempre più incontrollabile: una megacrisi de-generativa percorre le nostre vite, fin dentro le tanto esaltate (forse troppo) democrazie liberali. Viviamo in una megacrisi che non è sommatoria ma interrelazione profonda di molte crisi. Sullo sfondo, e dentro, una radicale rivoluzione tecnologica (non neutra). Sullo sfondo, e nel profondo, di una pericolosa assenza di politica.

Le relazioni internazionali assomigliano a un’arena selvaggia nella quale i vari player, a cominciare dai più importanti (Stati Uniti e Cina), fanno ciascuno il proprio gioco strategico, pur non potendo negare l’inevitabile interrelazione. Il modello di globalizzazione, la cui ultima fase è partita ormai più di trent’anni fa, mostra tutti i suoi limiti, pur avendo contribuito a togliere dalla povertà materiale, dalla fame e dalla sete una buona parte di umanità. Eppure, possiamo dire, il prezzo da pagare si sta rivelando troppo esoso dal punto di vista della sostenibilità sistemica: la realtà del pianeta, e non solo con riguardo ai cambiamenti climatici, è lì a dimostrarcelo.

Nella megacrisi de-generativa, nella rivoluzione tecnologica e nell’assenza di politica il mondo chiede nuove vie, nuove mediazioni, nuove prospettive: il tema è, prima di tutto, culturale. Di quale pensiero abbiamo bisogno per comprendere e per riuscire a governare un mondo caratterizzato da una crescente complessità ?

Questa nota iniziale riguarda il pensiero strategico. In molti si affannano a teorizzare l’innalzamento dei muri e il rafforzamento dei confini, ponendo al centro le (pur giuste) esigenze di sicurezza. Da “fuori”, si dice, vengono condizionamenti e interferenze potentissimi che minano lo sviluppo delle comunità nazionali, di chi vive “dentro”. Questo è un pensiero limitato e limitante perché mette in seria difficoltà le società aperte. Al fine di proteggere i sistemi all’interno, si rischia di passare dalla normale immunizzazione a una patologica, e mortifera, auto-immunizzazione. Rischiamo, giocando al “noi contro di loro”, di svuotare ulteriormente le democrazie e, di conseguenza, di minare le libertà.

Se guardiamo alle società aperte, ciò che è mancato negli ultimi tre decenni è il governo politico del rapporto tra ogni livello locale e il livello globale. La guerra in Ucraina ci dice che una guerra regionale è, nei fatti, una guerra globale. Si potrebbero fare moltissimi altri esempi ma il tema è chiaro.

Sguardi nuovi devono ripartire dall’assenza di separazione tra ciò che accade all’interno degli Stati e i processi planetari. Politica interna e politica internazionale sono la stessa cosa.

La complessità del reale deve entrare nell’architettura e nei contenuti del pensiero strategico, a cominciare dalla problematizzazione dei modelli formativi. Le discipline accademiche, in particolare nelle università, sono ancora troppo distanti tra di loro mentre, secondo complessità, esse acquistano senso solo nella contaminazione per la reciproca fecondazione. Esistono, nella realtà, problemi disciplinari ?

Il mondo che viviamo chiede un pensiero complesso, critico, transdisciplinare. Se vogliamo contribuire a organizzare decisioni strategicamente pertinenti dobbiamo accogliere, senza se e senza ma, il paradigma della complessità.

Il pensiero strategico o è profondamente politico o è solo tattica di riposizionamento di rapporti di potenza. Nessuno nega che la questione del potere (da quello politico-istituzionale, a quello tecnologico, a quello della conquista di mercati di materie prime) continui e continuerà a essere importante ma, se vogliamo guardare alla sostenibilità del pianeta, e di ogni società, occorre cambiare via. La posta in gioco è troppo alta e i ragionamenti sul nuovo ordine planetario non possono essere lasciati a chi, ancora oggi, sembra prigioniero di categorie novecentesche, antistoriche perché riferite a un mondo che non c’è più.

Ian Bremmer (Il potere della crisi, 2022, p.8) ha scritto parole chiare a proposito di un mondo “G-zero”: (…) un mondo privo di leader dotati della volontà o della capacità di sedare le liti e forzare il compromesso su problemi costosi e pericolosi in nome della stabilità globale e del bene comune. Il mondo è entrato in una sorta di recessione geopolitica, una fase di crollo delle relazioni intergovernative che si verifica quando l’equilibrio globale del potere cambia molto più velocemente dell’architettura multi-nazionale che contribuisce a governare il sistema internazionale.

Potremmo dire che siamo in un mondo a-politico. Un mondo di mondi non dialoganti, sommatoria fragile di differenze in difesa. L’interrelazione globalizzata ha sacrificato, con buona pace dei sacerdoti della linearità, il vincolo profondo che tutti lega nel destino planetario. Non siamo passati, nella teoria e nella pratica delle relazioni internazionali, dall’interrelazione all’inter-in-dipendenza. Abbiamo gestito la libertà come un determinarsi a prescindere dal resto, una libertà a-politica, non liberante.

Non si può essere liberi fuori dal vincolo dell’inter-in-dipendenza. La relazione è ciò che ci tiene insieme come umanità nel pianeta. Occorre un approccio complesso per comprendere la profondità del vincolo: ancora una volta, come dicevamo all’inizio, le prospettive del mondo sono indissolubilmente legate alle prospettive del pensiero.

Occorre costruire scenari alternativi sulla base dell’inter-in-dipendenza e non della sola interrelazione. L’inter-in-dipendenza ci chiama a porre al centro la relazione e non le singole parti di volta in volta dominanti. Il vincolo che ci lega è complesso e una narrazione realistica del mondo non può che porsi dall’alto e nel profondo. Se, per decidere strategicamente, ci vuole la giusta distanza rispetto alla cronaca dei problemi, altrettanto occorre che la mediazione e la visione politiche siano profondamente immerse in ciò che vive anche in chiave contraddittoria e conflittuale.

La nostra ricerca guarda al tema della “glocalizzazione”. Ci interroghiamo sul futuro della globalizzazione, lavorando sul rapporto tra il livello locale e il livello globale dei processi e sui loro impatti. È su quella frontiera tra locale e globale che, a nostro avviso, si gioca il futuro del mondo e dei mondi.

Marco Emanuele
Marco Emanuele è appassionato di cultura della complessità, cultura della tecnologia e relazioni internazionali. Approfondisce il pensiero di Hannah Arendt, Edgar Morin, Raimon Panikkar. Marco ha insegnato Evoluzione della Democrazia e Totalitarismi, è l’editor di The Global Eye e scrive per The Science of Where Magazine. Marco Emanuele is passionate about complexity culture, technology culture and international relations. He delves into the thought of Hannah Arendt, Edgar Morin, Raimon Panikkar. He has taught Evolution of Democracy and Totalitarianisms. Marco is editor of The Global Eye and writes for The Science of Where Magazine.

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