Il pensiero strategico , di cui qui si elabora, è frontiera del pensiero: mai come oggi è venuto il tempo di percorrerla.
Ci siamo lasciati alle spalle, ormai da più di trent’anni, un mondo cosiddetto bi-polare nel quale c’erano posizioni chiare che si confrontavano. Un mondo che ci chiamava a scegliere decisamente da che parte stare, che ci mostrava realtà contrapposte per sistemi di idee e per organizzazione della convivenza. Anche se la realtà era complessa (perché la realtà lo è sempre), ci eravamo abituati a leggerla in maniera lineare, quasi che bastasse schierarsi ideologicamente.
Sostengo, paradossalmente, che oggi ci troviamo in un mondo disarmante e armato. Un mondo nel quale – senza voler generalizzare – le classi dirigenti ne hanno tradito, e continuano a farlo, la complessità in nome di semplificazioni assolutizzate e di continue separazioni. Un mondo nel quale il cosiddetto Occidente, quando pensa di poter leggere il pianeta unicamente attraverso la propria storia, fa pratica ma non pensa, non conosce (che è questione ben diversa dall’essere informati). Non siamo tutti figli della stessa storia (1).
Fino alla caduta dell’impero sovietico aveva senso parlare di ordine. C’erano, infatti, le condizioni perché quella parola potesse essere utilizzata. Anche se, come ho già notato, l’ordine bi-polare non esauriva la complessità della realtà. Però il quadro era chiaro e, come amavo dire con i miei studenti riflettendo sui totalitarismi del ‘900 e sulla evoluzione della democrazia, il mondo ci appariva più semplice e più comprensibile.
La parola ordine appare oggi anacronistica. Siamo nel pieno di poteri del tutto auto-referenziali, personali nelle leadership, in democrazie sempre più “svuotate” e in regimi autoritari che vogliono imporsi come portatori di un nuovo ordine o di una nuova civiltà (spesso nel nome di un passato che non passa). Pensare strategicamente significa, anzitutto, prendere atto che l’ordine che conoscevamo è definitivamente tramontato e che il mondo sta cercando ossessivamente un altro ordine che fatica a trovare (e che, certamente, non avrà le caratteristiche di quello del mondo bi-polare).
Il pensiero strategico, frontiera del pensiero, si muove nei segni dei tempi. Sono le dinamiche storiche che contribuiscono, nella loro com-presenza, a fare del mondo di oggi un luogo meno comprensibile rispetto a quello dell’ordine bi-polare. Questo accade perché dobbiamo confrontarci con tre parole-chiave: radicalità, velocità e imprevedibilità.
Radicalità, velocità e imprevedibiliità sono caratteristiche della grande trasformazione nella quale siamo immersi e che è caratterizzata, in grande parte, dalla cosiddetta rivoluzione tecnologica. E’ un processo complesso che ci impone, al contempo, un approccio dall’alto e nel profondo. Altresì, è un processo che ci chiama ad anticipare i fenomeni, a pre-vedere: se tutto si è velocizzato, le classi dirigenti sembrano legate a una idea statica e superficiale di cambiamento. Infine, guardando in particolare alla natura del rischio, è chiaro come l’imprevedibile governi sempre di più le nostre vite: anche se, con tutta evidenza, dobbiamo dire che molti dei fenomeni che consideriamo imprevedibili (cigni neri) sono in realtà im-prevedibili, vivono nel profondo delle nostre prevedibili certezze (un esempio per tutti, la pandemia). La imprevedibilità è molto importante laddove, stante il rischio, dobbiamo riconoscere un avversario, o gli avversari, da contrastare: il dominio cyber insegna.
Sulla base di queste parole-chiave di realtà, il pensiero strategico non può più essere solo lineare ma deve caratterizzarsi come pensiero complesso, sinergico, sistemico. Un pensiero che distingua ma non separi e che, seguendo Raimon Panikkar, si cali nella densità (2) della vita che evolve; nell’epoca della superficialità dominante, generata da una controllata inflazione verbale, sarebbe una vera e propria rivoluzione.
Occorre ri-tornare (tornare continuamente) alla realtà. La scommessa del pensiero strategico ci porta nel cuore della realtà, quella dei fatti, quella percepita attraverso la ragione, quella – come scrive Panikkar – del “terzo occhio”, profonda, mistica (3). Non sono tre realtà ma una unica e inseparabile.
Il pensiero strategico è pensiero critico e, in quanto tale, autocritico. Se ci pensiamo, guardando a ciò che accade ogni giorno in giro per il mondo, l’assenza di autocritica delle reciproche posizioni, espresse con parole di violenza, assolutizza posizioni in competizione le une con le altre. Per questo, è la parola, prima degli eserciti, a essere armata. Da qui viene il senso, attraverso il pensiero strategico, di una doppia presa d’atto:
- dei rapporti di potere in essere, negli Stati e tra gli Stati, nelle culture (intendendo anche le religioni) (4) e tra le culture e della necessità di una loro continua mediazione. I rapporti di forza sono ineliminabili dal palcoscenico della storia;
- di una necessaria, e urgente, de-esclation planetaria. Se vogliamo dare senso a parole come sostenibilità e futuro, oggi usate piuttosto come termini, occorre ri-pensare e condividere un progetto di civiltà. Nel quadro più generale del ri-pensamento per la ri-fondazione della politica.
Ancora, il pensiero strategico è competitivo – cooperativo. Ha ragione Panikkar: Dalla mia finestra, io penso di vedere tutta la realtà, e se non sono solidale con gli altri, non mi rendo conto che altri pure pensano di vedere tutta la realtà, loro pure dalla loro finestra. (5) La convinzione di avere la Verità è il primo passo verso l’assolutizzazione, la dogmatizzazione delle proprie convinzioni: così facendo, esse diventano vere e proprie armi da scagliare contro per affermarsi. In nome della (presunta) Verità si sono fatte, e si continuano a fare, vittime in giro per il mondo. Questo aspetto, straordinariamente importante nel periodo in cui scrivo, chiama a nuovi inizi di relatività, a contaminare la competizione dalla cooperazione (per renderla sostenibile) e la cooperazione dalla competizione (per renderla realistica).
Per restare pragmatici, sempre pensando alle tragedie che attraversano il mondo, va detto che il pensiero strategico guarda alla realtà-che-è senza infingimenti e distorsioni (oltre ai meccanismi del potere, intendendo il potere istituzionale, occorre conoscere le tecniche della malainformazione e della disinformazione). I fatti, dunque, pesano come macigni e avvengono qui e ora. Penso che occorra lavorare lungo due direttrici che s’incontrano: studiare per comprendere ciò che accade, cercando di decidere in maniera pertinente, e immaginare nuovi percorsi culturali e politici (il progetto di civiltà di cui scrivevo). Questo secondo aspetto è del tutto inesistente mentre il primo è in evidente affanno.
Note:
(1) Tutto questo è particolarmente vero se si pensa a un sistema come la Cina. Così scrive Michael Schuman in L’impero interrotto. La storia del mondo vista dalla Cina, Milano 2021, p. 25: Quando guardiamo il mondo, tendiamo a dimenticare che altri popoli non condividono la nostra evoluzione politica, sociale ed economica e quindi magari non condividono nemmeno i nostri ideali e le nostre priorità. Con quresta affermazione non si intende tanto giustificare la repressione cui è soggetto oggi il popolo cinese, quanto sottolineare che la storia cinese del mondo ha prodotto esiti diversi da quella dell’Occidente. E mentre la Cina ascende sulla scena mondiale, porta con sé il bagaglio che si è trascinata dietro nel suo lungo viaggio storico, con tutti i suoi onori e disonori annessi.
(2) Raimon Panikkar, Tra Dio e il Cosmo, Roma-Bari 2019, p. 5: L’ossessione dei giorni nostri, per la quale è importante aumentare la longevità umana, ci fa dimenticare di considerare la vita nei termini della sua densità.
(3) Raimon Panikkar, op. cit., p. 8
(4) Brevemente argomento sul perché considero le religioni all’interno delle culture. Il primo motivo è perché le religioni si calano in un contesto umano particolare. Il secondo motivo è declinato da Raimon Panikkar, op. cit., p. 9, laddove spiega la religiosità come una dimensione antropologica fondamentale, costitutiva di ogni uomo.
(5) Raimon Panikkar, op. cit., pp. 10 e 11