Gli Stati Uniti e la Cina, sostiene Bremmer (Il potere della crisi, 2022, p. 119), non devono essere d’accordo su come governare Hong Kong, su come disegnare i confini marittimi del Mar cinese meridionale né sulla definizione di “democrazia”. Ma devono essere d’accordo sull’urgenza di investire in piani energetici in grado di limitare i danni che il cambiamento climatico infliggerà a tutti noi.
La prospettiva della glocalizzazione, work in progress, guarda all’impatto dei fenomeni planetari nei diversi territori e impone una ri-configurazione degli assetti internazionali almeno, in una prima fase, limitatamente alla megacrisi in atto.
La competizione strategica non esclude la cooperazione necessaria. Il rischio è che, continuando a insistere solo sulla competizione, l’umanità del futuro debba essere costretta a porsi il problema della propria sopravvivenza. La cecità delle classi dirigenti politiche è di non riuscire a distinguere strategicamente i campi del confronto da quelli dell’incontro: pur se gli interessi particolari sono naturalmente in conflitto, dovrebbe essere altrettanto chiaro che vi sono ambiti che riguardano tutti e che occorre affrontare insieme. Quando c’è in gioco il futuro dell’umanità e del pianeta, infatti, c’è in gioco anche il proprio futuro; collaborare serve anche per salvarsi.
Non c’è crisi della megacrisi che non chieda cooperazione strategica. La chiede la pandemia da Covid-19, e quelle che verranno, la chiede la partita dei cambiamenti climatici, la chiede la rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo. Riguardo a quest’ultima, scrive Bremmer (op. cit., pp. 126 e 127): Alcune tecnologie dirompenti, quelle che cambiano fondamentalmente il nostro modo di vivere, comportano rischi di disumanizzazione, perché trasformano la natura del lavoro a scapito dei lavoratori, creando nuove forme di disuguaglianza sia nei singoli paesi che tra stati e inventano nuovi modi di spezzare i legami tradizionali tra famiglie, vecchi e nuovi amici e abitanti del pianeta. Sono emersi nuovi rischi associati agli informatici fuorilegge, poiché sempre più spesso ordigni bellici e potenti strumenti cibernetici finiscono nelle mani di criminali e terroristi. È a rischio la pace tra le nazioni più potenti di cui abbiamo goduto dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Come per la globalizzazione, la critica alla quale passa dal riconoscimento dei benefici portati a milioni di persone nel mondo in termini di uscita dalla povertà, dalla fame e dalla sete, così sulla tecnologia non si può adottare un approccio antagonistico e ideologico. Il passaggio che abbiamo ripreso da Bremmer è dentro un quadro critico che ben evidenzia le grandi opportunità generate dalla tecnologia. Essa, come ogni fenomeno umano, non è neutra. Se la tecnologia è un ambito a forte valenza competitiva, per quali tecnologie (maggiormente rischiose) occorre cooperazione ? Questo è il punto.
Nella prospettiva della glocalizzazione, è centrale il punto del rapporto tra nuove tecnologie e sviluppo delle città. Bremmer (op. cit., p. 128) scrive: Sono in arrivo grandi cambiamenti nelle città più dinamiche del mondo. Le città sono il motore dell’economia globale. Il loro abitanti, vale a dire la metà della popolazione mondiale, rappresentano circa l’80 per cento del PIL globale e due terzi del consumo elettrico complessivo. Secondo la Banca mondiale, entro il 2045 le aree urbane della terra ospiteranno più di sei miliardi di persone, due terzi di tutta l’umanità. Continua Bremmer (op. cit., p. 130): Quanto più efficiente sarà la gestione di una città, tanto più produttivi saranno i suoi abitanti e maggiore potrà essere la sua prosperità. La rivoluzione digitale sta inoltre aiutando le città ad affrontare uno dei problemi fondamentali del XXI secolo: la sicurezza.
Come dicevamo, non essendo neutre, le tecnologie generano anche rischi. Nota Bremmer (op. cit., p. 132): Nel 2018 Joy Buolamwini, un ricercatore del MIT Media Lab, ha dimostrato che gli algoritmi di riconoscimento facciale venditu da IBM, Microsoft e Face++ (un’azienda cinese di riconoscimento facciale) erano più bravi a riconoscere i volti con carnagioni chiare e meno bravi a riconoscere quelli con la pelle scura, soprattutto femminili. Da uno studio condotto nel 2019 dal National Institute of Standards and Technology del governo degli Stati Uniti su 189 algoritmi di riconoscimento facciale venduti da 99 aziende è emerso che questi programmi hanno sbagliato a identificare volti asiatici e neri dalle 10 alle 100 volte in più rispetto a quelli caucasici.
L’esempio portato da Bremmer, tra i tanti che si potrebbero evidenziare, ci dice che anche la rivoluzione tecnologica è in progress. Nel pieno della transizione digitale, l’ampia (pressoché infinita) disponibilità di dati rischia di aprire importanti scenari di rischio come disumanizzazione, aggravamento delle disuguaglianze, brutalizzazione dei conflitti. Occorre cooperare, a cominciare da “dialoghi politici (per un governo glocale)” all’interno delle città, per ridurre al massimo i rischi connessi a un utilizzo distorto delle tecnologie “disruptive”. Ancora Bremmer (op. cit., p. 132): Anche l’intelligenza artificiale che funziona secondo i piani può sovvertire le migliori intenzioni di chi l’ha progettata – e di chi vorrebbe usarla per migliorare le cose. Man mano che l’automazione, il machine learning e l’intelligenza artificiale del XXI secolo cambieranno le nostre vite, interi settori economici si disintegreranno e molte forme di lavoro umano scompariranno. Non c’è nulla di nuovo nel cambiamento tecnologico e nella “distruzione creatrice” che esso comporta (…).
La transizione digitale sta all’interno di un radicale e profondo processo di “trasformazione glocale” del mondo e dei mondi. Nulla può più essere compreso e governato se non nel quadro di tale trasformazione politica-complessa-strategica. È evidente la necessità di cooperare negli ambiti più sensibili e, soprattutto, di immaginare nuovi paradigmi valoriali, culturali, politico-istituzionali, economici, giuridici. Nella trasformazione, infatti, tutto entra in metamorfosi: è responsabilità delle classi dirigenti, e di ciascuno di noi, capirlo e agire di conseguenza. Serve un nuovo pensiero strategico.