Mario Boffo è Ambasciatore a riposo e romanziere. Ha ricoperto, tra i molti incarichi, quello di Ambasciatore d’Italia in Yemen e Arabia Saudita
Più che una “terza guerra mondiale combattuta a pezzi”, come l’ha definita Papa Francesco, quello a cui stiamo assistendo sembra essere definitivamente un conflitto globale. Globale non solo per estensione planetaria, almeno negli effetti e nelle ripercussioni, ma anche in chiave tematica, perché avvolge una molteplicità di temi, e forse tutti i temi salienti dell’attuale momento esistenziale della nostra specie. Se dovessimo parafrasare un noto pensatore del passato, potremmo dire che “uno spettro si aggira per il mondo: lo spettro dell’incuria”. L’incuria che è alla base di tutti i maggiori disastri che infuriano per il pianeta, e che costituisce l’incubazione del conflitto globale. Un’incuria che non è certo frutto di distrazione, quanto piuttosto di cieca volontà di potenza, brama di dominio, cupidigia di profitto e bramosia di accaparramento.
La guerra in Ucraina e la guerra in Palestina sono commentate – per ingenuità dai più, per manipolazione dalle potenze e per conformismo dalla stampa – sulla sola base degli ultimissimi accadimenti: la Russia ha invaso l’Ucraina; Hamas ha commesso atroci attacchi sul suolo d’Israele. Questo è indubbiamente vero, e nessuno intende sottrarsi alla condanna di questi atti; alcuni lo fanno per senso etico, altri per conformismo, altri per lavarsi la coscienza. Le condanne, tuttavia, servono a poco, e spesso non fanno altro che alimentare le opposte propagande: è più che comprensibile che i fatti cui assistiamo sconvolgano la nostra coscienza etica, ma questo non serve a capire né a risolvere i problemi. Entrambe le guerre in corso partono infatti da lontano e da questioni molto più profonde degli avvenimenti in atto. Al di là di questioni locali e regionali che pure esistono, il vero scopo dell’aggressione russa all’Ucraina è quello di reagire all’espansione acritica e potenzialmente senza limiti della NATO, espansione che è parente strettissima della spinta americana che proietta gli Stati Uniti verso la visione di un’influenza globale e priva di alternative; la marcia verso e a cavallo di una “frontiera” che non ha limiti definiti, al servizio di un’evidente – e oramai impotente – riedizione del manifest destiny d’altri tempi. La guerra nel Medio Oriente, al di là degli esecrabili atti di queste settimane, affonda le proprie radici nella mancata esecuzione o attuazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite e dei vari tentativi di mettere ordine e pace fra israeliani e palestinesi. Analogamente alla mancata attuazione degli accordi di Minsk per quanto riguarda le regioni contese dell’Ucraina.
L’adesione alla Nato di quasi qualsiasi paese lo abbia chiesto e i temi israeliani vengono strenuamente difesi – ancora una volta, per ingenuità, per ipocrisia o per manipolazione propagandistica – con argomenti futili sul piano strategico o malintesi sul piano logico: il diritto di ogni paese a scegliere le proprie alleanze e il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele. Ma al diritto di chiedere non corrisponde un automatico diritto di ottenere; la sicurezza dei paesi dell’Europa orientale poteva essere garantita valorizzando i grandi risultati di Helsinki ’75 e gli strumenti dell’OSCE, che ne è la loro incarnazione terrena. Al diritto di esistere dello stato d’Israele, analogamente, non corrisponde il diritto all’espropriazione e alla repressione. L’aver ispirato, fomentato e alimentato la politica NATO delle “porte aperte”, l’aver tollerato le brutali politiche di occupazione israeliana, è stato frutto di politiche deliberate che – basate su un’illusione di onnipotenza – non hanno tenuto conto delle reazioni e dei disastri che erano in grado e che sono state in grado di causare.
Mentre si prepara una nuova divisione del mondo fra Occidente e BRIC’s allargati, e al margine della questione russa, lo scontro principale, per ora sul piano politico-economico e di posizionamento strategico, è quello con la Cina. La Cina è senza dubbio una potenza imperiale. Ma se è arrivata al punto di poter sfidare l’Europa e l’Occidente sul piano economico, tecnologico, industriale e militare, è anche perché il sistema economico globale le ha delegato attività e conoscenze tecniche e scientifiche, delocalizzandovi un gran numero di produzioni, anche di qualità, al solo scopo di riduzione dei costi e al servizio dell’ideologia del profitto avulso da ogni altra considerazione. Forte della conseguita potenza, la Cina si è da tempo stabilita in Africa, tende le proprie ambizioni verso il Mediterraneo e si sta affermando anche nel Golfo. Le modalità sono a lei proprie; ma identico a quello già manifestato dall’Occidente è l’intento predatorio. Anche la Russia, del resto, opera da tempo in Africa, mentre l’Europa è visibilmente in ritiro.
Ancora una volta, da parte occidentale, si concentra sulle più recenti evoluzioni uno sguardo più che miope; e dell’insofferenza africana per l’Europa si dà colpa esclusiva all’aggressività dell’influenza russa o cinese, valutando di nuovo le cose senza profondità. L’Africa, quella mediterranea e quella subsahariana, sarebbero state il luogo della naturale cooperazione con l’Europa. Ma come abbiamo concepito questa “naturale cooperazione”? Senza visione e con politiche neocolonialiste che sono state forse, per quei popoli, più deleterie del colonialismo ottocentesco. I colpi di stato che si sono verificati ultimamente in alcuni paesi africani vanno letti chiaramente in chiave antioccidentale, come del resto nella stessa chiave devono essere lette molte conseguenze delle cosiddette “primavere arabe”. Ancora una volta, incuria.
Incuria che oltre a sottrarre l’Africa al naturale partner europeo – e parliamo di un partenariato che poteva e avrebbe dovuto essere realmente collaborativo, su un piano di mutuo rispetto e di equi scambi economici, politici e sociali – è in buona parte alla base delle migrazioni verso i nostri paesi, al netto dell’operato dei trafficanti, che del resto intervengono perché esiste una domanda. Lo sfruttamento dei territori e delle risorse, l’accaparramento e l’espropriazione di enormi superfici da destinare a produzioni agricole atte ad alimentare i mercati mondiali, l’annichilimento delle potenzialità economiche locali, le guerre causate da tali politiche predatorie, rendono impossibile la vita in questo continente a noi tanto vicino, da cui, quindi, molti scappano per disperazione.
Scappano anche per il deterioramento ambientale dovuto alla crisi climatica. Altro tema sul quale non sono mancati moniti e avvertimenti sin dallo scorso millennio. Altro tema sul quale l’incuria dei governi mondiali ha causato la sua molto probabile fuoruscita da ogni possibilità di controllo e in merito al quale – sullo sfondo della mostruosa e iniqua sperequazione economica e sociale che attraversa il mondo – si svolge il conflitto fra paesi pienamente sviluppati, che compiono sforzi di sostenibilità, e paesi meno sviluppati, che intendono prima raggiungere un livello di sviluppo analogo a quello dell’occidente.
Tutte queste situazioni si sarebbero potute prevenire. L’avidità economica, il desiderio di potenza di alcuni, la cieca fiducia nel mercato e nelle dottrine neoliberiste, la deregulation e l’annullamento di ogni serio potere di controllo pubblico, interno o internazionale, lo hanno impedito. Nel contempo i social media, la stampa prevalente, la televisione, a tratti anche la scuola, hanno dirottato le menti delle persone verso obiettivi futili e superficiali e verso divertimenti senza profondità che privano i popoli della capacità di critica e di valutazione, all’insegna di un individualismo esasperato, della frammentazione di ogni aggregazione umana, dell’ingiustizia sociale, dell’elargizione di ogni diritto individuale in modo del tutto avulso dai legami e dalle condivisioni che devono esistere nella società.
Sarà difficile districare questa matassa di elementi disomogenei, eppure in qualche modo concorrenti agli stessi devastanti esiti.
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