(di Anna Maria Cossiga)
Di identità si parla molto; più spesso, però, se ne straparla, per lo più conoscendo assai poco l’argomento. Si tratta di uno di quei temi complessi che si affrontano mettendo in atto la più pericolosa delle semplificazioni a vantaggio della propria parte politica e ideologica. La minaccia alla propria identità di gruppo, culturale, etnica, nazionale o religiosa che sia, è diventata una vera e propria “fissazione” di numerosi governi occidentali, le cui politiche per la gestione dei flussi migratori consistono nel respingimento dei migranti “invasori”, la cui presenza sui territori “patri” potrebbe distruggere la “nostra” identità. Una teoria che va per la maggiore è quella della “grande sostituzione”, in base alla quale le migrazioni contemporanee sarebbero organizzate da un potente burattinaio (di solito identificato con George Soros, ebreo) che vuole sostituire la “razza bianca” con quelle di varie sfumature di nero. Di recente, anche il presidente tunisino Sayed l’ha adottata, adattandola alla realtà del suo paese: sarebbero i migranti dell’Africa sub-sahariana a voler sostituire la “razza” araba.
La psicologia, l’antropologia e la sociologia dibattono sull’identità da sempre e non è facile spiegare in breve “che cos’è l’identità?”. Ci preme, però, sottolineare che l’identità, individuale o di gruppo che sia, non è un dato “naturale” degli esseri umani. Non si nasce con un’identità, che si acquisisce, invece vivendo in società; in altri termini, la si impara grazie al contatto e alla comunicazione con le persone del gruppo, più o meno allargato, di cui facciamo parte. Tuttavia, anche l’identità individuale si crea grazie al contatto con l’altro. E’ attraverso di lui/lei che ciascuno si rende conto, in qualche modo, di essere sé stesso/a. In un caso e nell’altro, si diventa consapevoli del “sé” grazie all’incontro con “l’altro”. L’individuazione, anche di gruppo, avviene dunque attraverso una “opposizione”, che crea sempre conflitto. Il grande antropologo Claude Lèvi-Strauss ha sottolineato che “l’atteggiamento più antico… che tende a riapparire in ognuno di noi quando siamo posti in una situazione inattesa, consiste nel ripudiare puramente e semplicemente le forme culturali – morali, religiose, sociali, estetiche – che sono più lontane da quelle in cui ci identifichiamo”. Esiste, insomma, una sorta di “etnocentrismo naturale” che ci porta a credere la nostra cultura migliore delle altre e ad essere prevenuti con il “diverso”.
Tale prevenzione, tuttavia, e il conflitto che ne può seguire, non devono necessariamente sfociare in xenophobia, razzismo o guerra culturale. Il conflitto fa parte della realtà e il più delle volte non è violento. Può diventarlo, però (e non solo in senso fisico), nel momento in cui si crede che la cultura a cui apparteniamo, e da cui la nostra identità deriva, sia “pura” e possa, perciò, essere “contaminata” dall’incontro con altre culture. Le culture “pure” non esistono: esse cambiano, nel tempo, per motivi interni, e proprio perché, venendo a contatto con altre culture, ne possono assumere alcuni degli elementi. Questo è sempre accaduto, nella storia. Parlando di “identità etnica” italiana, per esempio, l’antropologo Ugo Fabietti fa notare che “gli italiani sono la risultanza di una sovrapposizione nel tempo di gruppi, tradizioni, flussi, forme di scambio”. Quanto alla nostra identità nazionale, è molto giovane ed è stata “costruita” nel momento in cui l’Italia è diventata unitaria. Noi l’abbiamo “imparata” grazie alla scuola, ai “riti civili” che ricordano quelli che sono i momenti salienti della nostra storia nazionale, e vivendo insieme in società. Non siamo stati sempre italiani né abbiamo sempre parlato la stessa lingua; quanto al cattolicesimo, da molto tempo, ormai, con la secolarizzazione tipica del moderno mondo occidentale, oltre che ad essere una religione, è diventato anche una tradizione culturale e non sempre condivisa. Basterebbe provare a fare qualche chiacchiera sul tema con alcuni giovani. Noi italiani, come tutti i popoli, apparteniamo, dunque, a una cultura stratificata e complessa a cui, nel tempo, si aggiungeranno elementi di quella di cui oggi sono latori i migranti. Le culture possono morire, insieme alle identità che da esse derivano. Nella storia è accaduto più volte, ma è improbabile che la presenza dei migranti non UE e non cristiani, in Italia e in Europa, possa portare ad una sostituzione della nostra cultura e della “etnia bianca e cristiana”.
Ricordiamo ancora che, per essere noi stessi, abbiamo sempre bisogno “dell’altro”. Confrontandoci con caratteristiche culturali diverse dalle nostre, ci rendiamo conto meglio di chi siamo. In fondo, il confronto con un’identità diversa rafforza la nostra. Il problema centrale, per l’Occidente, è, a nostro parere, la sua paura di “perdere sé stesso” e, piuttosto che riflettere sulla crisi in atto e sulle sue cause, addebita ad altri la possibile perdita della propria identità. Ernesto De Martino chiamava questo timore “crisi della presenza”, il disagio profondo di “essere spaesati” a casa propria. E’ un discorso lungo e complesso. Magari ci torneremo nella prossima puntata.
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