(Marco Emanuele)
Non è questione di etica della guerra o di discutere intorno al concetto di ‘guerra giusta’. Di fronte a ciò che accade, non solo nel Vicino Oriente, scriviamo di ’empatia selettiva’.
Il tema è molto importante perchè riguarda l’atteggiamento delle opinioni pubbliche, dunque di ciascuno di noi, rispetto ai conflitti armati e alle guerre che stanno attraversando il mondo. Tutte le parti in causa, guardando al globo, tendono a fare propaganda anche sulle vittime, così come sui ‘propri’ ostaggi. In parte comprensibile, l’atteggiamento è già in sé escludente.
Ma, come ragioniamo noi, cittadini di mondi che guardano da lontano le guerre attraversare il mondo ? Certo, la lontananza aiuta anche l’atteggiamento d’indifferenza: in fondo sono cose che non ci toccano direttamente. Sembra valere di più, come nel caso dell’Ucraina, la preoccupazione per i costi energetici che non il destino di una parte di umanità che continua a finire la propria esistenza come vittima di combattimenti o combattendo.
Ma, anche per i conflitti per i quali siamo più attenti (quelli mediaticamente ‘coperti’, in attesa del prossimo), il coinvolgimento è più competitivo che emotivo. Concordiamo con chi dice che il 7 ottobre è stato uno spartiacque per Israele, il suo 11 settembre, e sottolineiamo come ogni vittima rappresenti la sconfitta dell’umanità. Ogni vittima, però, senza ‘selezionare’ le vittime più o meno tali e più o meno ‘meritevoli’ di essere piante. L’empatia non è competitiva ma c’è o non c’è: non si costruisce sulla base di precisi disegni geopolitici. Vediamo molta rabbia reciproca (bellicista e pacifista), ascoltiamo parole e vediamo atti di violenza banale (l’antisemitismo e l’islamofobia, ad esempio), di semplificazione ma l’empatia non c’è, quel sentimento emotivo che dovrebbe sollevare la nostra responsabilità: non basta il ‘mai più la guerra’.
L’assenza di empatia diventa impossibilità di percorrere l’oltre: quell’assenza, insomma, diventa impossibilità di costruire la pace (che, contrariamente a ciò pensano in molti, non si esaurisce – ma lentamente comincia – nell’assenza di guerra). Complessità insegna che pace è ‘approccio’ largo e di medio-lungo periodo (processo storico).
E poi, per concludere, ci sono le vittime dei conflitti armati e delle guerre che non vediamo, di cui è pieno il mondo (le cosiddette ‘guerre dimenticate’). In quel caso, l’empatia diventa selettiva anche perché sappiamo poco, a volte nulla.
(English version)
It is not a question of the ethics of war or of discussing the concept of ‘just war’. Faced with what is happening, not only in the Near East, we write about ‘selective empathy’.
The topic is very important because it concerns the attitude of public opinions, therefore of each of us, towards the armed conflicts and wars that are going through the world. All the parties involved, looking across the globe, tend to also spread propaganda about the victims, as well as about ‘their’ hostages. Partly understandable, the attitude is already exclusionary in itself.
But how do we reason, citizens of worlds who watch wars cross the world from afar? Of course, distance also helps the attitude of indifference: after all, these are things that don’t affect us directly. It seems to be worth more, as in the case of Ukraine, the concern for energy costs than the fate of a part of humanity that continues to end its existence as a victim of fighting or as soldiers or volunteers in fighting.
But, even for the conflicts for which we are most attentive (those covered by the media, waiting for the next one), the involvement is more competitive than emotional. We agree with those who say that October 7th was a watershed for Israel, its September 11th, and we underline how each victim represents the defeat of humanity. Every victim, however, without ‘selecting’ the victims who are more or less such and more or less ‘deserving’ of being mourned. Empathy is not competitive but it is there or not: it is not built on the basis of precise geopolitical designs. We see a lot of mutual anger (war-mongering and pacifist), we listen to words and see acts of banal violence (anti-Semitism and Islamophobia, for example), of simplification but the empathy is not there, that emotional feeling that should raise our responsibility: ‘never war again’ is not enough.
The absence of empathy becomes the impossibility of walking-in-beyond: that absence, in short, becomes the impossibility of building peace (which, contrary to what many people think, does not end – but slowly begins – in the absence of war). Complexity teaches that peace is a broad and medium-long term ‘approach’ (historical process).
And then, to conclude, there are the victims of armed conflicts and wars that we do not see, of which the world is full (the so-called ‘forgotten wars’). In that case, empathy becomes selective also because we know little, sometimes nothing.
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