In un mondo in subbuglio e di poteri che si ri-posizionano, alla ricerca spasmodica e disarticolata di un nuovo ordine planetario, i decisori politici sembrano rassegnati all’esistente e sostanzialmente incapaci di visioni strategiche. Non c’è area del mondo che non sia percorsa da autoritarismi e da conflitti in esasperazione nelle democrazie e nei sistemi “a mezzo” tra spinte democratiche e autoritarie. La guerra in Ucraina, scatenata da Vladimir Putin e di cui oggi non si intravede la fine, è lì a mostrarci il fallimento di fatto dell’architettura di sicurezza impostata dopo la caduta del muro di Berlino e l’implosione dell’Unione Sovietica. Poi ci sono una rivoluzione tecnologica che – tra opportunità e rischi – sta trasformando velocemente e radicalmente le nostre vite e che si insinua in ogni ambito della convivenza, la megacrisi de-generativa nella quale siamo immersi e, ultimo ma ben importante, la fragilità di una pace tanto declamata quanto difficilmente realizzabile.
C’è, in giro, una resa evidente al presente imminente. C’è, altresì, il crollo irrecuperabile dei paradigmi culturali e operativi che, semplificando, appartenevano al mondo pre-9 novembre 1989 e che ancora si cerca di utilizzare nella piena linearità di un pensiero inadeguato al mondo che viviamo. Il danno peggiore che la generazione alla quale appartengo (dei cinquata-sessantenni) può fare a chi verrà dopo non riguarda solo l’ insostenibilità del pianeta ma anche, e forse soprattutto, la rinuncia al pensare complesso.
Mai come oggi, alcune parole dovrebbero essere l’alimento di un dibattito pubblico all’altezza della situazione storica che stiamo vivendo: mediazione, dialogo, visione politico-strategica. Sembrano parole consumate perché, molto spesso, le utilizziamo a sproposito e non le caliamo, con realismo progettuale, nella realtà-che-è. Altra parola è riflessione, qui intesa come ri-flessione, ovvero il calarsi continuo nel profondo del vivente reale, nostro specchio e nostra casa.
Dall’alto e nel profondo: questo è il movimento che auspichiamo. Perché le relazioni internazionali com-prendono le relazioni inter-nazionali ed entrano, senza chiedere permesso, dentro i nostri stessi comportamenti condizionando le relazioni tra esseri umani. La guerra in Ucraina diventa crisi energetica e alimentare, profughi sparsi per l’Europa, ridefinizione di modelli e architetture istituzionali, questioni di sicurezza e difesa che toccano le nostre società nazionali. Così come ogni altra guerra in corso nel mondo, e ogni muro (culturale e fisico), non può non riguardarci. Tutto fa parte di noi, non foss’altro perché ne paghiamo, sotto varie forme, il prezzo.
Si tratta di un prezzo non solo economico che molti non sono in grado di sostenere ma di un prezzo che tocca corde profonde, che lascia de-generare la speranza e che rischia di privare parte di umanità delle possibilità di futuro. Dico fin da subito che, nell’inaugurare questa ricerca di giudizio storico, laboratorio di complessità, mi colloco nella categoria degli ottimisti realistici.
L’antagonismo, al quale si potrebbe essere tentati di aderire in una fase così delicata di passaggio strategico, non paga. La violenza contro il sistema non cambia il sistema stesso ma, al contrario, ne eleva l’asticella di sicurezza e chiama gli Stati a reagire con la forza che gli appartiene. Può dirsi sostenibile un mondo nel quale si scontrano posizioni radicalizzate e non dialoganti ? Non è forse giunta l’ora di problematizzare atteggiamenti di separazione, di competizione esasperata, di semplificazione della complessità ?
Occorre percorrere strade di pensiero critico e servono laboratori informali che tengano insieme sensibilità, competenze, prospettive differenti. Serve investire nell’incertezza-che-siamo, non negandola per non trasformarla in insicurezza e in disagio, accendendo focolai pericolosi e difficilmente controllabili. Serve partire dalla responsabilità della complessità-in-noi, da quel senso dell’umano – contraddittorio – che porta dentro il male. Insomma, occorre lavorare tra giudizio storico e complessità.
Nessuno può ergersi a Giudice della Storia. Dovremmo capirlo, a evitare che le verità di parte si dogmatizzino fino a renderci incapaci di dialogo e, dunque, capaci solo di contrapposizione e di violenza. Il gioco dello scontro tra verità di parte non guarda oltre lo spettro della “propria” verità e non può che generare assenza di terreno comune e, dunque, de-generazione di realtà.
Solo il pensiero critico e complesso può aiutarci a de-dogmatizzare il circolo vizioso delle verità di parte. Se è impossibile immaginare un mondo perfetto, forse la sostenibilità politico-strategico può passare attraverso processi di competizione cooperativa che muovano, da ogni territorio al mondo, a fare della nostra storia un terreno politico di dialogo dialogante, inevitabilmente passando dal dialogo dialettico.