Occorre prestare attenzione alle profonde complessità della storia. C’è un dato che riguarda il nostro ‘presente storico’, non riducibile a un semplicistico ‘presente imminente’: nelle profondità del nostro vivere, chiunque noi siamo, c’è l’identità, il nostro essere sostanziale, ciò che ci distingue (senza separarci) da ogni altro.
Oggi ci ritroviamo in un mondo dalle identità sempre più radicalizzate, e a richieste di riconoscimento strategico che sono sempre pronte a esplodere. Dovremmo riflettere su questo, nella grande trasformazione dal pensiero lineare a quello complesso mentre avviene, con velocità e radicalità, la riconfigurazione dei rapporti di potere a livello mondiale.
Dovremmo riflettere sul fatto che la radicalizzazione delle identità si somma, in molti casi e soprattutto in contesti già provati da conflitti pluriennali (si pensi a quello israelo-palestinese), a questioni sociali di grande disagio. E’ interessante un passaggio dell’intervista de La Stampa (24 novembre 2022) a Michael Milshtein, ex capo del Dipartimento per gli affari palestinesi dell’intelligence militare israeliana e oggi alla direzione del Forum di studi palestinesi presso il Moshe Dayan Center for Middle Eastern and African Studies dell’Università di Tel Aviv: In passato Israele si è trovato ad affrontare periodi molto più violenti e pericolosi. Questa volta però la preoccupazione per le conseguenze accomuna israeliani e palestinesi. Perché non si tratta solo di una questione di conflitto a livello militare ma ci troviamo ad affrontare il prodotto di fenomeni sociali e culturali più profondi all’interno dell’arena palestinese e nelle sue relazioni con Israele.
Attenzione, dunque, a continuare a leggere questa situazione con gli occhi dell’opzione militare, della delegittimazione e della continua elevazione dell’asta della sicurezza (in una parola, linearmente).
La radicalizzazione delle identità diventa, allora, un elemento di valutazione dei contesti strategici. Ma ci vogliono conoscenza e disponibilità all’approfondimento per il negoziato e per il dialogo. Non siamo più nel mondo che, più di trent’anni fa, ci siamo lasciati alle spalle. Allargando lo sguardo, la centralità della diplomazia è il tema che farà la differenza nei prossimi anni. Intendiamo una ‘diplomazia diffusa’, la capacità di cogliere di elementi di complessità che un approccio solo lineare ci fa perdere.
In un ideale giro d’orizzonte, vediamo come le tante identità che costituiscono il ‘mosaico planetario’ fatichino a riconoscere la prospettiva strategica di un destino comune che, dovendo salvaguardare le specificità, non può che essere ‘glocale’. Introduciamo, continuando a riflettere, il tema di una ‘antropologia geostrategica’.
English version
Attention must be paid to the profound complexities of history. There is a fact about our ‘historical present’ that cannot be reduced to a simplistic ‘imminent present’: in the depths of our living, whoever we are, there is identity, our substantial being, that which distinguishes us (without separating us) from every other.
Today we find ourselves in a world of increasingly radicalised identities, and demands for strategic recognition that are always ready to explode. We should reflect on this, in the great transformation from linear to complex thinking as the reconfiguration of power relations worldwide takes place with speed and radicality.
We should reflect on the fact that the radicalisation of identities adds up, in many cases and especially in contexts that have already been tested by multi-year conflicts (think of the Israeli-Palestinian one), to social issues of great unease. An interesting passage from an interview in La Stampa (24 November 2022) with Michael Milshtein, former head of the Palestinian Affairs Department of Israeli military intelligence and now director of the Palestinian Studies Forum at the Moshe Dayan Center for Middle Eastern and African Studies at Tel Aviv University: In the past, Israel has faced much more violent and dangerous periods. This time, however, concern about the consequences unites Israelis and Palestinians. Because this is not just a question of conflict at the military level, but we are facing the product of deeper social and cultural phenomena within the Palestinian arena and in its relations with Israel. (our translation)
Beware, therefore, of continuing to read this situation through the eyes of the military option, of delegitimisation and the continuous raising of the security bar (in a word, linearly).
The radicalisation of identities becomes, then, an element in the evaluation of strategic contexts. But it takes knowledge and willingness to deepen for negotiation and dialogue. We are no longer in the world we left behind more than thirty years ago. Widening our gaze, the centrality of diplomacy is the issue that will make the difference in the coming years. We mean ‘widespread diplomacy’, the ability to grasp elements of complexity that a purely linear approach makes us miss.
In an ideal turn of the horizon, we see how the many identities that make up the ‘planetary mosaic’ struggle to recognise the strategic perspective of a common destiny that, having to safeguard specificities, can only be ‘glocal’. We introduce, as we continue to reflect, the theme of a ‘geostrategic anthropology’.