(Marco Emanuele)
Varie riflessioni portano a considerare come, nell’attuale fase del mondo, stiano saltando – uno dopo l’altro – tutti i paradigmi culturali e operativi che conoscevamo. Non che la cosa stupisca, perché questo è solo uno dei cambi di era che l’umanità ha vissuto: forse, nell’era della tecnologizzazione pressoché totale, colpisce il ritorno alla preistoria della condizione umana. E seguono illusioni, anzi auto-inganni: come il pensare di poter applicare le classiche norme del diritto internazionale umanitario a una situazione di ferocia ‘banale’.
A proposito delle risposte a tale ferocia, il discorso è davvero complesso. Non intendiamo concentrarci sulle possibili reazioni ma dire che siamo vicini a Israele che mai può eradicare dal proprio DNA la voragine creata dalla ‘Shoah’. Chiunque, a prescindere dalla propria appartenenza e convinzione, si schieri, più o meno ingenuamente, con chi compie atti di terrorismo in nome di Dio e in (presunta) difesa dei popoli oppressi, sbaglia, e non poco. Quando uno studente inneggia ai terroristi, al di là della personale responsabilità, ci domandiamo chi siano i suoi cattivi maestri. E la risposta, purtroppo, è semplice: la famiglia, la scuola, la banalità del male che percorre le nostre menti e le nostre strade (talmente ricche d’innovazione, e di poco senso di umanità, da essere diventate culturalmente preistoriche).
La violenza per la violenza (che si chiama vendetta) non è mai una soluzione. Anche se, dobbiamo dirlo con chiarezza, Hamas utilizza la violenza non per difendere i palestinesi ma per ragioni geopolitiche, autonome o indotte: cancellare Israele dalla carta geografica del mondo.
Con apparente paradosso, ciò che è più grave sono le convinzioni radicalizzate degli intellettuali, o dei cosiddetti tali, che – fuori da quel contesto – predicano la furia bellicista. Che Israele abbia il diritto di difendersi è fuori discussione: ma, attraverso una riflessione complessa e seguendo l’esempio dei molti che – dall’interno – s’interrogano seriamente, occorrerebbe ricostruire un rapporto meno radicale (e più realistico) rispetto alla difesa. Alcuni, convinti che il ‘900 non sia finito, parlano di etica della guerra: ma quale etica pensiamo possa funzionare se, nel terzo millennio, ancora dobbiamo fare i conti con il male banale ? Non è (solo) questione di etica ma, nel momento in cui non possiamo aggrapparci a paradigmi di certezza, il tema è la qualità delle scelte strategiche.
Se esiste un mondo davvero democratico, si salvi il diritto di Israele a difendersi, cercando di sconfiggere l’organizzazione terroristica di Hamas; allo stesso tempo, però, si avvii una riflessione seria per la salvaguardia dei civili a Gaza e in ogni guerra che attraversa il mondo.
Non possiamo più accettare che, dai nostri salotti, si predichi la furia bellicista, dimenticando che i popoli israeliano e palestinese – e non altri – sono le vere vittime di questa guerra. E’ ora di rimettere il treno della storia sui binari della responsabilità per la sostenibilità sistemica. Comprendendo il ‘chi diventiamo’: prima che sia troppo tardi.
(English version)
Various reflections lead us to consider how, in the current phase of the world, all the cultural and operational paradigms that we knew are falling apart – one after the other. Not that this is surprising, because this is only one of the changes of era that humanity has experienced: perhaps, in the era of almost total technologisation, it strikes the return to the prehistory of the human condition. And illusions, indeed self-deceptions, follow: such as thinking we can apply the classical norms of international humanitarian law to a situation of ‘banal’ ferocity.
On the subject of responses to such ferocity, the discourse is indeed complex. We do not intend to focus on possible reactions but to say that we are close to Israel, which can never eradicate from its DNA the chasm created by the ‘Shoah’. Whoever, regardless of personal affiliation and conviction, more or less naively sides with those who commit acts of terrorism in the name of God and in (alleged) defence of oppressed peoples, errs, and not a little. When a student sings the praises of terrorists, beyond personal responsibility, we wonder who his bad teachers are. And the answer, unfortunately, is simple: the family, the school, the banality of evil that runs through our minds and our streets (so full of innovation, and little sense of humanity, that they have become culturally prehistoric).
Violence for violence’s sake (which is called revenge) is never a solution. Although, we must make it clear, Hamas uses violence not to defend the Palestinians but for geopolitical reasons, autonomous or induced: to wipe Israel off the world map.
With apparent paradox, what is more serious are the radicalised beliefs of intellectuals, or so-called such, who – out of that context – preach bellicist fury. That Israel has the right to defend itself is beyond dispute: but, through complex reflection and following the example of the many who – from within – seriously question themselves, a less radical (and more realistic) relationship to defence should be reconstructed. Some, convinced that the 20th century is not over, speak of the ethics of war: but what ethics do we think will work if, in the third millennium, we still have to reckon with banal evil? It is not (only) a question of ethics but, at a time when we cannot cling to paradigms of certainty, the issue is the quality of strategic choices.
If there is a truly democratic world, let us save Israel’s right to defend itself by trying to defeat the terrorist organisation of Hamas; at the same time, however, let us start a serious reflection on the protection of civilians in Gaza and in every war in the world.
We can no longer accept the preaching of bellicose fury from our living rooms, forgetting that the Israeli and Palestinian peoples – and not others – are the real victims of this war. It is time to put the train of history back on the tracks of responsibility for systemic sustainability. By understanding ‘who we become’: before it is too late.
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