Metamorfosi del pensiero e della decisione strategica
Intendiamo, nel tempo della complessità crescente, proporre una ricerca che guardi a una metamorfosi del pensiero per una metamorfosi della decisione strategica.
Il pensiero lineare e separante, che oggi domina, confligge in maniera sempre più evidente con la grande trasformazione che l’umanità e il pianeta stanno vivendo. Di conseguenza, nella moltiplicazione delle dinamiche e nella stringente vicinanza dei mondi, nulla può essere separato dal resto: occorre capire, con realismo e visione, come guidare la trasformazione (inarrestabile) in atto. Ciò che deve essere ben chiaro, sia che si continui come stiamo facendo (verso il peggioramento dell’insostenibilità politico-strategica del mondo e dei mondi) sia che si cambi via (verso la sostenibilità, come auspichiamo), è che i futuri possibili dipendono esclusivamente dalla nostra responsabilità.
Siamo immersi in un circolo vizioso nel quale noi esseri umani non siamo in grado di comprendere e di governare la realtà da noi stessi generata. Si pensi alle frontiere dell’intelligenza artificiale e delle tecnologie ‘disruptive’: sono gli stessi produttori, in molti casi, a mettere in guardia i decisori sulla necessità di costruire un’architettura etica e giuridica di fronte ai rischi che tali tecnologie possono comportare per la vita dell’uomo. Non si tratta, evidentemente, né di maturare un approccio antagonistico né di ‘rilassarci’ in un approccio del ‘progresso a ogni costo’: serve un pensiero critico e complesso.
Questa è la sfida che vediamo. La metamorfosi del pensiero è già parte della metamorfosi della decisione strategica. Per restare sul tema tecnologico, sul quale torneremo più avanti, l’intelligenza artificiale è ciò che permette grandi avanzamenti nel campo della sanità e nel governo delle città e dei territori; allo stesso tempo, la ricerca e la produzione tecnologica sono anche la ragione della competizione geostrategica nel terzo millennio e si legano inestricabilmente alle nuove forme della disinformazione, della disintermediazione ‘apolitica’ e della guerra.
Non si tratta di un doppio binario ma della stessa partita culturale e politico-strategica. C’è la nostra responsabilità che occorre ripensare in funzione dei futuri possibili. Qui utilizziamo la parola sostenibilità interpretandola in maniera estensiva: non si tratta solo di sostenibilità ambientale ma sistemica.
Il centro come auto-inganno
Dentro gli Stati e a livello internazionale ancora prevale l’idea di un centro dal quale tutto promana, a cominciare dalle indicazioni di governo della realtà. Quest’ultima, invece, si presenta a noi come una rete-di-reti, interrelazione nella quale esiste una dipendenza profonda tra le parti. Il tema, dunque, non è più il centro ma la relazione tra le parti, inseparabili l’una dall’altra.
La realtà è multipolare ma si esprime, in visione centrica, come uno scontro tra poteri costituiti. Non può esserci dinamicità di costruzione storica così come non si può parlare di pace sostanziale: ciò che è costituito ha paura dell’imprevedibile e dell’informale, dunque del complesso, natura della realtà.
Nel dominio del costituito, pensiamo in particolare allo Stato, l’elemento chiave è la burocratizzazione che non è la presenza degli apparati amministrativi. La burocratizzazione è processo degenerativo che punta alla crescente immunizzazione dei sistemi rispetto all’esterno e al consolidamento di ogni sistema come centro di realtà.
La multipolarità potrebbe essere, invece, la grande occasione per generare una visione complessa, dunque profondamente politica, del mondo e dei mondi. Si tratta, anzitutto, di disinvestire dal centro come luogo strategico e di cominciare a percorrere le periferie esistenziali come parti inseparabili di un quadro sistemico. Le periferie esistenziali, non necessariamente i luoghi del disagio, sono gli infiniti cammini che incontriamo vivendo e che, nel continuo interrelarsi, si trasformano in maniera quasi mai prevedibile e generano realtà imprevista: è questione complessa perché, nel mondo multipolare, i sistemi valoriali, culturali, politico-istituzionali, economici e giuridici non possono essere del tutto protetti, immunizzati, difesi. Si verifica, infatti, una contaminazione reciproca, principio della reciproca fecondazione.
Disinvestire dal centro è disinvestire dal bisogno di sentirsi il centro del mondo multipolare. Mai come oggi, nel quadro delle relazioni internazionali, tale atteggiamento è necessario. Ma il mondo multipolare è anche quello delle nostre comunità umane, piccole o grandi che siano, che vanno ripensate e rifondate sulla base della relazione. Siamo nel tempo delle storie che ritornano e ciò chiede un approccio radicalmente innovativo: radicalizzarsi al centro, vivendolo come una certezza assolutizzata, è pericoloso auto-inganno.
L’eccesso di sicurezza genera fragilità
La guerra è fenomeno diffuso perché è mentalità pericolosamente radicata. L’espressione di papa Francesco, ‘terza guerra mondiale a pezzi’, non può essere limitata alle guerre combattute sui campi di battaglia: c’è, purtroppo, molto altro.
Si tratta, infatti, di avviare e di condividere una riflessione dall’alto e nel profondo. Dall’Ucraina ai tanti conflitti dimenticati, dalle disuguaglianze al sospetto e alla violenza diffusi, dalle migrazioni ai cambiamenti climatici e al disequilibrio tra natura e impronta dell’uomo (con gli effetti sulla salute dell’uomo), dalla rivoluzione tecnologica all’innalzamento di muri culturali e fisici, tutto si tiene. Viviamo una fase di trasformazione profonda e radicale.
Abbiamo una certezza: radicalizzarci nella sicurezza ci rende fragili. L’illusione di una sicurezza totale è segno totalitario, conseguenza drammatica di una immunizzazione portata all’eccesso, negazione della politica come mediazione e come visione, assenza di respiro storico e di dialogo.
Se non vi è dubbio che, negli ultimi decenni, non abbiamo governato politicamente le società aperte, la soluzione non può essere chiudersi nel proprio particolare. Anche se le diplomazie sono continuamente al lavoro, ciò che occorre dire con forza è che il modello di mondo che abbiamo impostato non è più sostenibile. Le comunità umane, anche comprensibilmente, sentono di vivere dentro una grande trasformazione e che tutto ciò che consideravano sicuro e acquisito sta progressivamente venendo meno: tale percezione porta insicurezza e paura perché, lo vediamo chiaramente, abbiamo il mondo in casa.
Il nostro giardino si è allargato. Non avendo governato politicamente l’apertura delle società, attraverso una cultura della complessità crescente e senza strategie adeguate, molte persone si sentono smarrite e impaurite, prive di quei punti di riferimento (certezze) con i quali sono cresciute e grazie ai quali hanno potuto costruirsi una vita personale e professionale. Quelle persone non riconoscono più la realtà circostante ed è come se non fossero riconosciute: sentono di non poter più incidere per migliorare le cose perché, prima di tutto, non capiscono il mondo (a cominciare dal proprio).
Sappiamo che la soluzione non può essere l’elevazione oltre misura dell’asticella di sicurezza. Ciò non fa altro che aumentare la fragilità del costituito, di ciò che rappresenta il nostro mondo di certezze consolidate. Le trasformazioni sociali vanno accompagnate, mai dimenticando che esse devono vivere nel consolidamento dei legami relazionali, comunitari, in un giardino che non è più legato a tempi passati ma che è percorso dai futuri che già vivono nel nostro presente.
ENGLISH VERSION
Metamorphosis of thought and strategic decision-making
We intend, in the time of increasing complexity, to propose research that looks to a metamorphosis of thought for a metamorphosis of strategic decision-making.
Linear and separating thinking, which dominates today, increasingly conflicts with the great transformation that humanity and the planet are experiencing. Consequently, in the multiplication of dynamics and the close proximity of worlds, nothing can be separated from the rest: it is necessary to understand, with realism and vision, how to guide the (unstoppable) transformation underway. What must be clear, whether we continue as we are doing (towards the worsening political-strategic unsustainability of the world and worlds) or change course (towards sustainability, as we hope), is that possible futures depend solely on our responsibility.
We are immersed in a vicious circle in which we human beings are unable to understand and govern the reality we have generated. Think of the frontiers of artificial intelligence and ‘disruptive’ technologies: producers themselves, in many cases, warn decision-makers of the need to build an ethical and legal architecture in the face of the risks that such technologies may pose to human life. Clearly, it is neither a question of developing an antagonistic approach nor of ‘relaxing’ into a ‘progress at any cost’ approach: what is needed is critical and complex thinking.
This is the challenge we see. The metamorphosis of thinking is already part of the metamorphosis of strategic decision-making. To remain on the technological theme, to which we will return later, artificial intelligence is what enables great advances in the field of health and the governance of cities and territories; at the same time, research and technological production are also the reason for geostrategic competition in the third millennium and are inextricably linked to the new forms of disinformation, ‘apolitical’ disintermediation and war.
This is not a double track but the same cultural and politico-strategic game. There is our responsibility that needs to be rethought in terms of possible futures. Here we use the word sustainability interpreting it extensively: it is not just about environmental sustainability but systemic.
The centre as self-deception
Within States and at the international level, the idea of a centre from which everything emanates still prevails, starting with the directions in which reality is governed. The latter, instead, presents itself to us as a network-of-networks, an interrelationship in which there is a profound dependence between the parts. The theme, therefore, is no longer the centre but the relationship between the parts, inseparable from each other.
Reality is multipolar but is expressed, in a centred view, as a clash between constituted powers. There can be no dynamism of historical construction just as there can be no talk of substantial peace: what is constituted is afraid of the unpredictable and the informal, hence of the complex, nature of reality.
In the domain of the constituted, we think in particular of the State, the key element is bureaucratisation, which is not the presence of administrative apparatuses. Bureaucratisation is a degenerative process that aims at the increasing immunisation of systems against the outside and the consolidation of each system as a centre of reality.
Multipolarity, on the other hand, could be the great opportunity to generate a complex, hence profoundly political, vision of the world and worlds. It is a question, first of all, of disinvesting from the centre as a strategic location and of beginning to journey through the existential peripheries as inseparable parts of a systemic framework. The existential peripheries, not necessarily the places of discomfort, are the infinite paths that we encounter while living and that, in the continuous interrelation, are transformed in a way that is almost never predictable and generate unforeseen realities: it is a complex issue because, in the multipolar world, the value, cultural, political-institutional, economic and juridical systems cannot be completely protected, immunised, defended. In fact, mutual contamination, the principle of reciprocal fertilisation, occurs.
To disinvest from the centre is to disinvest from the need to feel the centre of the multipolar world. Never before, in the context of international relations, is such an attitude necessary. But the multipolar world is also that of our human communities, whether small or large, which must be rethought and refounded on the basis of relationship. We are in the time of returning stories and this calls for a radically innovative approach: radicalising the centre, living it as an absolute certainty, is dangerous self-deception.
Excess security generates fragility
War is a widespread phenomenon because it is dangerously entrenched mentality. Pope Francis’ expression, ‘third world war in pieces’, cannot be limited to wars fought on battlefields: there is, unfortunately, much more.
It is, in fact, about initiating and sharing a reflection from above and deep within. From Ukraine to the many forgotten conflicts, from inequality to widespread suspicion and violence, from migration to climate change and the imbalance between nature and man’s footprint (with its effects on human health), from the technological revolution to the erection of cultural and physical walls, everything is taking place. We live in a phase of profound and radical transformation.
We have one certainty: radicalising ourselves into security makes us fragile. The illusion of total security is a totalitarian sign, a dramatic consequence of immunisation taken to excess, a denial of politics as mediation and as vision, an absence of historical breath and dialogue.
If there is no doubt that we have not governed open societies politically in recent decades, the solution cannot be to close oneself off within one’s own particular. Even if diplomacies are constantly at work, what needs to be said forcefully is that the world model we have set up is no longer sustainable. Human communities, even understandably, feel that they are living in the midst of a great transformation and that everything they used to consider safe and acquired is gradually disappearing: this perception brings insecurity and fear because, we see it clearly, we have the world at home.
Our garden has expanded. Not having politically governed the opening up of societies, through a culture of increasing complexity and without adequate strategies, many people feel lost and afraid, deprived of those points of reference (certainties) with which they grew up and thanks to which they were able to build a personal and professional life. These people no longer recognise the reality around them and it is as if they were not recognised: they feel they can no longer make an impact to improve things because, first of all, they do not understand the world (starting with their own).
We know that the solution cannot be to raise the bar of security too high. This only increases the fragility of the constitued, of what represents our world of established certainties. Social transformations must be accompanied, never forgetting that they must live in the consolidation of relational, community ties, in a garden that is no longer linked to past times but is traversed by the futures that already live in our present.
VERSION FRANCAISE
Métamorphose de la pensée et de la décision stratégique
Nous entendons, à l’heure de la complexité croissante, proposer une recherche qui envisage une métamorphose de la pensée pour une métamorphose de la décision stratégique.
La pensée linéaire et séparatrice, qui domine aujourd’hui, entre de plus en plus en conflit avec la grande transformation que l’humanité et la planète sont en train de vivre. Dès lors, dans la multiplication des dynamiques et la proximité des mondes, rien ne peut être séparé du reste : il faut comprendre, avec réalisme et vision, comment orienter la transformation (inéluctable) en cours. Ce qui doit être clair, que nous continuions comme nous le faisons (vers l’aggravation de l’insoutenabilité politico-stratégique du monde et des mondes) ou que nous changions de cap (vers la durabilité, comme nous l’espérons), c’est que les futurs possibles ne dépendent que de notre responsabilité.
Nous sommes plongés dans un cercle vicieux dans lequel nous, les êtres humains, sommes incapables de comprendre et de gouverner la réalité que nous avons générée. On pense aux frontières de l’intelligence artificielle et des technologies “disruptives” : ce sont les producteurs eux-mêmes, dans de nombreux cas, qui avertissent les décideurs de la nécessité de construire une architecture éthique et juridique face aux risques que ces technologies peuvent poser à la vie humaine. Il ne s’agit donc pas de développer une approche antagoniste, ni de se “détendre” dans une approche de “progrès à tout prix” : ce qu’il faut, c’est une pensée critique et complexe.
Tel est le défi auquel nous sommes confrontés. La métamorphose de la pensée fait déjà partie de la métamorphose de la décision stratégique. Pour rester sur le thème technologique, sur lequel nous reviendrons, c’est l’intelligence artificielle qui permet de grandes avancées dans le domaine de la santé et de la gouvernance des villes et des territoires ; en même temps, la recherche et la production technologique sont aussi la raison de la compétition géostratégique du troisième millénaire et sont inextricablement liées aux nouvelles formes de désinformation, de désintermédiation “apolitique” et de guerre.
Il ne s’agit pas d’une double piste mais d’un même jeu culturel et politico-stratégique. Il y a notre responsabilité qui doit être repensée en termes de futurs possibles. Nous utilisons ici le mot durabilité en l’interprétant de manière extensive : il ne s’agit pas seulement de durabilité environnementale, mais systémique.
Le centre, une tromperie sur soi
Au sein des États et au niveau international, l’idée d’un centre d’où tout émane prévaut toujours, à commencer par les directions dans lesquelles la réalité est gouvernée. Celle-ci, au contraire, se présente à nous comme un réseau-de-réseaux, une interrelation dans laquelle il existe une profonde dépendance entre les parties. Le thème n’est donc plus le centre mais la relation entre les parties, inséparables les unes des autres.
La réalité est multipolaire mais s’exprime, dans une vision centrée, comme un affrontement entre pouvoirs constitués. Il ne peut y avoir de dynamisme de la construction historique comme il ne peut être question de paix substantielle : ce qui est constitué a peur de l’imprévisible et de l’informel, donc de la complexité de la réalité.
Dans le domaine du constitué, nous pensons en particulier à l’État, l’élément clé est la bureaucratisation, qui n’est pas la présence d’appareils administratifs. La bureaucratisation est un processus dégénératif qui vise à l’immunisation croissante des systèmes contre l’extérieur et à la consolidation de chaque système en tant que centre de la réalité.
La multipolarité, en revanche, pourrait être la grande opportunité de générer une vision complexe, donc profondément politique, du monde et des mondes. Il s’agit avant tout de se désinvestir du centre en tant que lieu stratégique et de commencer à parcourir les périphéries existentielles en tant que parties inséparables d’un cadre systémique. Les périphéries existentielles, qui ne sont pas nécessairement des lieux d’inconfort, sont les chemins infinis que nous rencontrons en vivant et qui, dans l’interrelation continue, se transforment d’une manière qui n’est presque jamais prévisible et génèrent des réalités imprévues : c’est une question complexe parce que, dans le monde multipolaire, les systèmes de valeurs, culturels, politico-institutionnels, économiques et juridiques ne peuvent pas être complètement protégés, immunisés, défendus. En fait, il y a contamination mutuelle, le principe de la fertilisation réciproque.
Se désinvestir du centre, c’est se désinvestir de la nécessité de se sentir le centre du monde multipolaire. Jamais, dans le contexte des relations internationales, une telle attitude n’a été nécessaire. Mais le monde multipolaire, c’est aussi celui de nos communautés humaines, petites ou grandes, qui doivent être repensées et refondées sur la base de la relation. Nous sommes au temps des histoires qui reviennent et cela appelle une approche radicalement innovante : radicaliser le centre, le vivre comme une certitude absolue, est une dangereuse auto-illusion.
L’excès de sécurité engendre la fragilité
La guerre est un phénomène répandu parce qu’il s’agit d’une mentalité dangereusement enracinée. L’expression du pape François, “troisième guerre mondiale en morceaux”, ne peut se limiter aux guerres menées sur les champs de bataille : il y a malheureusement bien plus.
Il s’agit en fait d’initier et de partager une réflexion en haut et en bas de l’échelle. De l’Ukraine aux nombreux conflits oubliés, des inégalités à la suspicion et à la violence généralisées, des migrations au changement climatique et au déséquilibre entre la nature et l’empreinte de l’homme (avec ses effets sur la santé humaine), de la révolution technologique à l’érection de murs culturels et physiques, tout est en train de se produire. Nous vivons une phase de transformation profonde et radicale.
Nous avons une certitude : nous radicaliser dans la sécurité nous fragilise. L’illusion de la sécurité totale est un signe totalitaire, conséquence dramatique d’une immunisation poussée à l’excès, d’un déni de la politique comme médiation et comme vision, d’une absence de souffle historique et de dialogue.
S’il est indéniable que nous n’avons pas gouverné politiquement des sociétés ouvertes au cours des dernières décennies, la solution ne peut être de s’enfermer dans son propre particularisme. Même si les diplomaties sont constamment à l’œuvre, ce qu’il faut dire avec force, c’est que le modèle de monde que nous avons mis en place n’est plus soutenable. Les communautés humaines, même si c’est compréhensible, ont le sentiment de vivre une grande transformation et que tout ce qu’elles considéraient comme sûr et acquis disparaît peu à peu : cette perception engendre l’insécurité et la peur car, nous le voyons bien, nous avons le monde chez nous.
Notre jardin s’est agrandi. N’ayant pas gouverné politiquement l’ouverture des sociétés, à travers une culture de plus en plus complexe et sans stratégies adéquates, de nombreuses personnes se sentent perdues et effrayées, privées des points de référence (certitudes) avec lesquels elles ont grandi et grâce auxquels elles ont pu construire une vie personnelle et professionnelle. Ces personnes ne reconnaissent plus la réalité qui les entoure et c’est comme si elles n’étaient pas reconnues : elles ont l’impression de ne plus pouvoir agir pour améliorer les choses parce que, avant tout, elles ne comprennent pas le monde (à commencer par le leur).
Nous savons que la solution ne peut pas être de placer la barre de la sécurité trop haut. Cela ne fait qu’accroître la fragilité du constitué, de ce qui représente notre monde de certitudes établies. Les transformations sociales doivent être accompagnées, sans jamais oublier qu’elles doivent vivre dans la consolidation des liens relationnels, communautaires, dans un jardin qui n’est plus lié aux temps passés mais traversé par les futurs qui vivent déjà dans notre présent.