(Maria Eva Pedrerol)
Il 2024 annus horribilis che segna il record delle pene di morte eseguite nel mondo. Oltre 1.500 persone sono state giustiziate in 15 Paesi, il 91% in Medio Oriente. E’ la denuncia di Amnesty International, presentata nel suo rapporto annuale sulla pena di morte a livello globale. Bisogna tornare indietro fino al 2015, per trovare cifre cosi elevate (oltre 1.600 esecuzioni quell’anno). Per la segretaria generale di Amnesty, Agnès Callamard, “la pena di morte è una pratica ripugnante che non ha posto nel mondo di oggi”.
Iran, Iraq e Arabia Saudita guidano la triste classifica. Mancano comunque i dati di altri Paesi come, a esempio, Cina, Corea del Nord e Vietnam, dove Amnesty International ritiene che la pena di morte venga largamente applicata. In particolare nella regione mediorientale la pena di morte viene usata per far tacere i difensori dei diritti umani, i dissidenti, gli oppositori politici e le minoranze etniche.
“Quelli che hanno osato sfidare le autorità sono andati incontro al castigo più crudele, in particolare in Iran e in Arabia Saudita”, ha affermato Callamard. “Nel 2024 – ha sottolineato – l’Iran ha continuato ad usare la pena di morte per castigare gli individui che avevano sfidato la Repubblica Islamica durante le rivolte del Women Life Freedom” iniziate nel settembre del 2022 quando decine di iraniani scesero in piazza in diverse città per protestare contro l’uccisione della ventiduenne Mahsa Amini, arrestata per aver indossato lo hijab (velo) in modo “non appropriato”. Anche le autorità saudite usano la pena capitale contro i dissidenti politici e contro la minoranza sciita (tra il 10 e il 15% della popolazione).
Secondo Amnesty, nei 15 Paesi dove c’è ancora la pena di morte la sua applicazione varia di Stato in Stato. Per alcune nazioni è prevista per omicidio, per altri per atti di terrorismo o reati contro l’ordine stabilito, altri ancora per reati a sfondo religioso. Inoltre, più del 40% delle sentenze – scrive il rapporto – sono state applicate illegalmente per crimini relativi alla droga. Ma la legge internazionale sui diritti umani restringe l’uso della pena capitale per “i crimini più gravi”, che non includono le droghe. Tuttavia, sentenze relative al traffico di stupefacenti sono state applicate in Cina, Iran, Arabia, Singapore e, probabilmente, anche in Vietnam. Per Amnesty si tratta di una soluzione inefficiente e illegale. Eppure, Paesi come Nigeria, Tonga e le Maldive stanno considerando la possibilità di introdurre la pena capitale proprio per reati relativi alle droghe.
In Africa, quattro quinti delle 55 nazioni dell’area l’hanno abolita, ma negli ultimi periodi c’è stato un peggioramento. In Occidente tutti gli Stati dell’Unione Europea l’hanno abolita, in linea con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. e sono i più attivi nella lotta per l’abolizione. Negli Stati Uniti, dopo i progressi degli ultimi anni, la situazione sta ‘rallentando’ e le parole del presidente Donald Trump ‘non promettono niente di buono’. Trump ha più volte invocato la pena capitale come strumento per proteggere la popolazione “dai violentatori e assassini” .
C’è, comunque, qualche dato positivo. Oggi, 113 Paesi nel mondo hanno abolito completamente la pena di morte e 145 l’hanno abolita nella prassi. Sempre l’anno scorso, e per la prima volta, più dei due terzi dei Paesi membri delle Nazioni Unite hanno votato a favore della decima Risoluzione dell’Assemblea Generale su una moratoria dell’uso della pena capitale. Si tratta di un piccolo passo avanti in un mondo globale in crisi di identità, dove traballano sia le democrazie liberali che i diritti umani, mentre avanzano le autocrazie, la violenza e la legge del più forte. Eppure, come afferma Amnesty International, “c’è sempre chi è coraggioso e osa alzare la voce contro l’ingiustizia, anche a costo della vita”.