(Mario Boffo)
Spesso il “successo” dei vertici internazionali più che nella sostanza delle decisioni risiede nell’estrema cura posta nelle espressioni, nelle acrobazie sintattiche e verbali intese a non troppo costringere o turbare questo o quello, nelle “ambiguità costruttive” che alludono senza affermare e che eludono senza negare. Pura arte diplomatica nella sua versione più eterea. Sembra essere questo il caso anche del vertice Cop 28 di Dubai, che, nel perseguire e raggiungere il maggior compromesso possibile, ha preconizzato, in estrema sintesi: la conversione dai combustibili fossili e l’azzeramento delle emissioni climalteranti entro il 2050, pur con diversa gradualità fra paesi, in dipendenza dalle rispettive necessità di sviluppo, e senza precisare se i fossili dovranno essere abbandonati del tutto o utilizzati solo in misura tale da non compromettere la “neutralità carbonica”, ovvero il perfetto bilancio fra emissioni e sottrazione, comunque realizzata, delle particelle di Co2 nell’atmosfera; la triplicazione delle capacità di energie rinnovabili e il raddoppiamento del loro efficientamento; il ricorso, seppur indirettamente menzionato, all’energia nucleare. Nessun fermo alle prospezioni petrolifere, nessuno stop ai finanziamenti al settore degli idrocarburi, insufficiente sostegno economico ai paesi in via di sviluppo sulla via della transizione energetica.
Non è facile dedurre da questo mix di pretesi progressi e ambiguità quale sarà lo stato del clima nel 2050, se cioè avremo mantenuto il limite di 1,5 gradi di aumento termico prescritto dall’Accordo di Parigi e che cosa effettivamente succederà, sia al di sotto che al di sopra di questo limite posto dagli scienziati; anche perché bisognerà vedere se le intese, che non sono vincolanti, saranno effettivamente rispettate. Supponiamo comunque che l’auspicata neutralità carbonica venga effettivamente raggiunta; questo metterà in equilibrio il clima? Energia rinnovabile e nucleare saranno sufficienti in tempo utile a compensare le fonti fossili? Oppure il danno che è stato già creato continuerà a perpetuarsi per abbrivio, considerato anche che ha altri ventisette anni per accrescersi sostanzialmente indisturbato? E se anche raggiungessimo nel 2050 una sorta di equilibrio carbonico, quanto reggerà questo alla pressione di una popolazione mondiale in costante aumento, allo sviluppo economico di continenti interi ancora indietro rispetto all’Occidente, alla filosofia della crescita economica perpetua? Ben vengano – beninteso, quando verranno e quando saranno concreti – gli accordi mitigativi della complessa situazione climatica del pianeta e le invenzioni immaginate sulla base delle magnifiche sorti e progressive dell’umanità; tuttavia, è ora di porsi finalmente le domande cruciali che non abbiamo ancora avuto il coraggio di formulare.
La prima domanda è questa: dovremo continuare a generare l’energia necessaria a una produzione costantemente crescente, oppure dovremmo limitare la produzione al livello consentito dall’energia disponibile a condizioni non climalteranti? Sempre che non si raggiunga un’improbabile e immodificabile equilibrio climatico, si tratta di una domanda comunque pregna di angoscia, come il famoso monologo di Amleto, perché in un caso ci si avvia verso lo sconvolgimento incontrollabile e forse distruttivo del clima, nell’altro, ove non consapevolmente ed efficacemente governato, si andrebbe verso sconvolgimenti socioeconomici non scevri di pesantissime conseguenze. Eppure, è un dilemma che bisognerà risolvere.
Dall’insorgere dell’era industriale abbiamo prodotto sempre di più in quantità e pluralità di beni; in una prima fase, la produzione industriale ha migliorato la qualità della vita, almeno nel mondo industrializzato; in una seconda fase l’ha stabilizzata; nell’attuale fase, siamo inondati da beni di consumo che non solo non apportano valore aggiunto, se non futile e marginale, alla qualità della vita, ma talvolta la stravolgono, accompagnandoci per mano verso artificiosi bisogni che non abbiamo e verso mondi più o meno virtuali o effimeri di cui non vi sarebbe nessuna necessità. Abbiamo bisogno davvero, sempre in riferimento al mondo industrializzato, di possedere tre autovetture per famiglia? Abbiamo bisogno di avere ogni anno un nuovo cellulare sempre più performante, più pieghevole, più “smart”? abbiamo bisogno di stare sul web e sui social ventiquattrore al giorno tutti i giorni dell’anno? Abbiamo bisogno di viaggiare in massa per l’universo mondo nel modo compulsivo che vediamo? Abbiamo bisogno di mangiare carne con frequenza trisettimanale o più alta? No, perché i veri bisogni umani soggiacenti alle cose indicate sarebbero soddisfatti da trasporti pubblici efficienti, sostenibili e articolati; da computer e cellulari solidi, riparabili e concepiti senza obsolescenza programmata, tali da durare tutta la vita; da comunicazioni web e social limitati con qualche criterio; dall’abbandono del turismo di massa per un turismo meno intenso ma di maggior qualità e sostenibilità; da un’alimentazione varia ed equilibrata, tale da non dover produrre gli alimenti di natura animale o vegetale in modo intensivo e insostenibile.
Naturalmente anche quanto appena detto, a paradigmi socioeconomici e industriali immutati, sarebbe tragico: si arresterebbe il progresso tecnologico, si innescherebbero drammatici sconvolgimenti economici e sociali, intere categorie professionali perderebbero il lavoro, e così via. Tuttavia, sono proprio questi i problemi che dovremmo porci nelle prospettive future, e dovremmo cominciare a ragionarci sin da ora, senza aspettare il 2050. Si tratterebbe di rivoluzionare il paradigma economico industriale, non in direzione di una “decrescita felice”, che sostanzialmente non vuol dire nulla, ma verso una stabilizzazione e crescita della qualità del vivere a partire dalle vere necessità dei popoli e verso la valorizzazione di aspetti della vita altri che non il consumo compulsivo di cose e servizi inutili. La grande capacità progettuale e industriale umana dovrebbe dirigersi elettivamente verso produzioni sostenibili e durevoli basate sull’energia disponibile (e non è detto che l’ingegno umano non trovi il modo di migliorare i prodotti senza accrescere la domanda di energia); verso servizi alle persone, certo più importanti del cambio annuale del cellulare, come la sanità, la cultura, la scuola; verso la ricerca scientifica, tecnica e umanistica; verso un turismo che valorizzi i luoghi vicini, piuttosto che mete lontane raggiungibili solo a mezzo di gravissime emissioni da aerei e navi; verso una nutrizione che si benefici dei prodotti del territorio, piuttosto che avvalersi di alimenti che girano il mondo e lo inquinano prima di arrivare alle nostre tavole.
Abbiamo bisogno di una nuova e diversa economia che metta sostenibilità climatica ed equità sociale e internazionale al posto del PIL, del profitto illimitato, del debito, della speculazione finanziaria; parametri non più sostenibili, né accettabili, se vogliamo un mondo su cui non gravi la cappa della morte climatica, né quella dell’ingiusta e iniqua sperequazione di condizioni economiche e sociali. E dobbiamo chiederci se tale obiettivo dovrà essere affidato al dominio assoluto di un mercato senza regole, oppure alla gestione pubblica e internazionalmente concordata dei delicatissimi passaggi che inevitabilmente ne nasceranno. Ricordando che l’economia non è una forza della natura, ma un’invenzione del pensiero umano, che, in quanto tale, è suscettibile di tutti gli adattamenti che saranno necessari; e ricordando che ogni serio avanzamento nel senso auspicato abbisogna di un mondo cooperativo e pacificato, per poter ben operare senza la tragedia delle ricorrenti guerre, che tra l’altro anch’esse producono imponenti emissioni venefiche e climalteranti.
(English version)
Often the “success” of international summits, rather than in the substance of the decisions, lies in the extreme care taken in the expressions, in the syntactical and verbal acrobatics intended not to force or disturb this or that too much, in the “constructive ambiguities” that allude without affirming and which they evade without denying. Pure diplomatic art in its most ethereal version. This also seems to be the case at the Cop 28 summit in Dubai, which, in pursuing and reaching the greatest possible compromise, recommended, in extreme summary: the conversion from fossil fuels and the elimination of climate-changing emissions by 2050, albeit with different graduality between countries, depending on their respective development needs, and without specifying whether fossils will have to be abandoned completely or used only to an extent that does not compromise “carbon neutrality”, or the perfect balance between emissions and subtraction, however achieved, of Co2 particles in the atmosphere; the tripling of renewable energy capacities and the doubling of their efficiency; the use, albeit indirectly mentioned, of nuclear energy. No stop to oil exploration, no stop to financing of the hydrocarbon sector, insufficient economic support to developing countries on the path to energy transition.
It is not easy to deduce from this mix of alleged progress and ambiguity what the state of the climate will be in 2050, that is, if we have maintained the limit of 1.5 degrees of temperature increase prescribed by the Paris Agreement and what will actually happen, both beyond below and above this limit set by scientists; also because it will be necessary to see whether the agreements, which are not binding, will actually be respected. Let us assume, however, that the desired carbon neutrality is actually achieved; will this bring the climate into balance? Will renewable and nuclear energy be sufficient in time to offset fossil fuels? Or will the damage that has already been created continue to perpetuate itself, also considering that it has another twenty-seven years to grow essentially undisturbed? And even if we reach a sort of carbon balance in 2050, how long will this hold up to the pressure of a constantly increasing world population, to the economic development of entire continents still lagging behind the West, to the philosophy of perpetual economic growth? We welcome – of course, when they come and when they are concrete – the agreements mitigating the complex climatic situation of the planet and the inventions imagined on the basis of the magnificent and progressive destiny of humanity. However, it’s time to finally ask ourselves the crucial questions we haven’t yet had the courage to ask.
The first question is this: should we continue to generate the energy necessary for constantly increasing production, or should we limit production to the level permitted by the energy available in non-climate-changing conditions? Unless an unlikely and unchangeable climate balance is reached, it is a question full of anguish, like Hamlet’s famous monologue, because in one case we are moving towards the uncontrollable and perhaps destructive upheaval of the climate, in the other, if not consciously and effectively governed, we would be heading towards socioeconomic upheavals that are not without very serious consequences. Yet, it is a dilemma that will need to be resolved.
Since the onset of the industrial era we have produced an ever-increasing quantity and variety of goods. In a first phase, industrial production improved the quality of life, at least in the industrialized world; in a second phase it stabilized it; in the current phase, we are inundated with consumer goods which not only do not bring added value, if not futile and marginal, to the quality of life, but sometimes distort it, leading us by the hand towards artificial needs that we do not have and towards more or less virtual or ephemeral for which there would be no need. Do we really need, again in reference to the industrialized world, to own three cars per family? Do we need to have a new mobile phone every year that is increasingly better performing, more foldable, more “smart”? Do we need to be on the web and on social media twenty-four hours a day, every day of the year? Do we need to travel en masse around the universe in the compulsive way we see? Do we need to eat meat three times a week or more? No, because the real human needs underlying the things indicated would be satisfied by efficient, sustainable and articulated public transport; by computers and mobile phones that are solid, repairable and designed without planned obsolescence, so as to last a lifetime; by web and social communications limited with some criteria; from the abandonment of mass tourism for less intense but higher quality and more sustainable tourism; from a varied and balanced diet, such that we do not have to produce animal or vegetable foods in an intensive and unsustainable way.
Naturally, even what has just been said, with unchanged socioeconomic and industrial paradigms, would be tragic: technological progress would stop, dramatic economic and social upheavals would be triggered, entire professional categories would lose their jobs, and so on. However, these are precisely the problems that we should ask ourselves in future perspectives, and we should start thinking about them now, without waiting for 2050. It would be a question of revolutionizing the industrial economic paradigm, not in the direction of a “happy degrowth”, which essentially does not it means nothing, but towards a stabilization and growth in the quality of life starting from the true needs of peoples and towards the valorisation of aspects of life other than the compulsive consumption of useless things and services. The great human design and industrial capacity should be directed electively towards sustainable and durable production based on available energy (and it is not certain that human ingenuity cannot find a way to improve products without increasing the demand for energy); towards services to people, certainly more important than the annual change of mobile phone, such as healthcare, culture, school; towards scientific, technical and humanistic research; towards tourism that enhances nearby places, rather than distant destinations that can only be reached by means of very serious emissions from planes and ships; towards a nutrition that benefits from local products, rather than making use of foods that travel the world and pollute it before reaching our tables.
We need a new and different economy that puts climate sustainability and social and international equity in place of GDP, unlimited profit, debt, financial speculation; parameters that are no longer sustainable, nor acceptable, if we want a world that is not burdened by the burden of climate death, nor that of the unjust and inequitable inequality of economic and social conditions. And we must ask ourselves whether this objective will have to be entrusted to the absolute domination of a market without rules, or to the public and internationally agreed management of the very delicate steps that will inevitably arise from it. Remembering that the economy is not a force of nature, but an invention of human thought, which, as such, is susceptible to all the adaptations that will be necessary; and remembering that any serious progress in the desired direction requires a cooperative and pacified world, in order to be able to operate well without the tragedy of recurring wars, which among other things also produce massive poisonous and climate-altering emissions.
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