La Cina, i Talebani e il rame di Aynak / China, the Taliban and Aynak copper

(Carlo Rebecchi) 

Una delle leggi della politica internazionale è che il vuoto assoluto non esiste: se un Paese si ritira da un’area geografica, un altro Paese ne prenderà inevitabilmente il posto. Soprattutto se in quel “vuoto” ci sono ricchezze minerarie. E’ quanto sta avvenendo in Asia, per l’esattezza in Afghanistan. “Abbandonato” nell’agosto del 2021 dagli Stati Uniti, la Cina e il regime talebano di Kabul sono sempre più vicini. 

La Cina non riconosce ufficialmente l’Afganistan ma è il primo, ed anche il solo, Paese al mondo ad avere con il regime dei talebani relazioni diplomatiche a livello degli ambasciatori, mentre dall’indomani del ritiro americano da Kabul tutti gli altri Paesi hanno sostituito gli ambasciatori con incaricati d’affari.

Il primo dicembre, Assadullah Bilal Karimi, nuovo rappresentante del governo di Kabul in Cina, si è presentato a Pechino con il cerimoniale riservato agli ambasciatori, ed ha consegnato le lettere credenziali a Hong Lei, direttore generale del ministero degli esteri cinese. Atto che implica il riconoscimento dello Stato ospitante, e che non è previsto invece per gli incaricati d’affari.

Inoltre, come scrive Le Monde, il 13 settembre scorso il nuovo ambasciatore cinese in Afghanistan, era stato a Kabul dove era stato ricevuto con i massimi onori. Un comunicato cinese aveva in quell’occasione affermato che “la Cina rispetta la scelta indipendente del popolo afghano e non interviene mai negli affari interni afghani”.

Il presidente Xi Jinping, secondo quanto scrivono analisti asiatici, guarda con attenzione all’Afganistan – con il quale la Cina ha una frontiera comune di 67 chilometri – per almeno due motivi fondamentali. Uno, politico, è che per Pechino la stabilità dell’Asia centrale, e di conseguenza dell’ Afghanistan, è indispensabile per evitare un “contagio” islamista nello Xinjiang, dove vivono dodici milioni di uiguri musulmani. 

Quello economico è che una società cinese, la MMC-JCL, detiene dal 2008 i diritti di sfruttamento della miniera di rame di Aynak, una sessantina di chilometri a sud di Kabul, che sarebbe la seconda più grande al mondo. Le Monde cita in proposito  gli esperti Anders Corr e Emmanue Lincot, per i quali questo giacimento spiegherebbe “la rapidità” con la quale la Cina, “per nulla indifferente alle ricchezze minerarie”, si piega dalla parte dei talebani.

Le Monde definisce la linea cinese “un tentativo di integrare poco a poco il regime talebano nella comunità internazionale, senza riconoscerla totalmente, forse per poter continuare a esercitare su di esso una certa pressione”.

(English version)

One of the laws of international politics is that an absolute vacuum does not exist: if a country withdraws from a geographical area, another country will inevitably take its place. Especially if there are mineral riches in that “void”. This is what is happening in Asia, to be precise in Afghanistan. “Abandoned” in August 2021 by the United States, China and the Taliban regime in Kabul are increasingly closer.

China does not officially recognize Afghanistan but it is the first, and also the only, country in the world to have diplomatic relations with the Taliban regime at ambassadorial level, while since the day after the American withdrawal from Kabul all the other countries have replaced ambassadors with chargés d’affaires.

On December 1, Assadullah Bilal Karimi, the new representative of the Kabul government in China, showed up in Beijing with the ceremonial reserved for ambassadors, and handed over his letters of credence to Hong Lei, director general of the Chinese Foreign Ministry. Act which implies the recognition of the host State, and which is not foreseen for chargés d’affaires.

Furthermore, as Le Monde writes, on 13 September the new Chinese ambassador to Afghanistan was in Kabul where he was received with the highest honours. A Chinese statement on that occasion stated that “China respects the independent choice of the Afghan people and never intervenes in Afghan internal affairs”.

President Xi Jinping, according to what Asian analysts write, is looking carefully at Afghanistan – with which China has a common border of 67 kilometers – for at least two fundamental reasons. One, political, is that for Beijing the stability of Central Asia, and consequently of Afghanistan, is essential to avoid an Islamist “contagion” in Xinjiang, where twelve million Muslim Uyghurs live.

The economic one is that a Chinese company, MMC-JCL, has held the rights to exploit the Aynak copper mine since 2008, about sixty kilometers south of Kabul, which is said to be the second largest in the world. In this regard, Le Monde quotes experts Anders Corr and Emmanue Lincot, for whom this deposit would explain “the speed” with which China, “not at all indifferent to mineral riches”, bends over to the side of the Taliban.

Le Monde defines the Chinese line as “an attempt to gradually integrate the Taliban regime into the international community, without fully recognizing it, perhaps in order to continue to exert a certain pressure on it”.

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