(Maurizio Zandri. Docente di Sociologia dei conflitti e di Studi strategici, ha a lungo lavorato a progetti di sviluppo in Medio Oriente)
“…Pertanto, non riuscendo a far si che quello che è giusto sia forte, si è fatto si che quello che è forte sia giusto.” (B. Pascal)
C’è una strada per fermare definitivamente il “salto nella ferocia” di Hamas, senza annichilire le giuste speranze dei Palestinesi? C’è qualcuno capace di ragionare con discernimento strategico, con la pietà e le armi della politica e della diplomazia, anche mentre è sommerso, in entrambi i campi, in un mare di sangue e di disperato, forse comprensibilmente aggressivo, dolore? Solo una risposta, almeno parzialmente positiva, a questi interrogativi sembra in grado di rilanciare le opportunità, se non della ripresa a breve di un processo di stabilizzazione e pace, almeno di un freno alla deriva verso una tragica crisi globale, che dal sud di Israele e da Gaza si sta espandendo in tutto il Medio Oriente e saldando con altre crisi mondiali in corso.
Dobbiamo essere coscienti, che mai nella storia contemporanea si è accumulata tanta “legna pronta ad ardere” come in questo momento. Neanche nel Secolo scorso…
Non si tratta, con questo riferimento alle due Guerre mondiali del ‘900, di fare aumentare la nostra impotente paura (mitigata, ironia della sorte, dalla coscienza che le armi nucleari hanno ancora anche un effetto di deterrenza contro la follia), ma di indicare l’urgenza assoluta di un impegno totale, di una partecipazione fattiva delle persone di buona volontà, delle nostre Nazioni e, per quanto ci riguarda, dell’Europa, alla individuazione di un percorso alternativo. Non c’è, davvero, molto tempo.
Qualche appunto, ancorché emendabile, più o meno acuto nell’analisi ed equilibrato nei giudizi, può essere un modo per provare a “partecipare”. Iniziando da qualche distinguo.
Chi era Hamas?
L’attacco di Hamas in territorio israeliano del 7 Ottobre ha voluto caratterizzarsi per la brutalità e la ferocia contro la popolazione civile. Hamas ha scelto il passaggio al terrorismo più violento come forma di lotta principale.
Hamas non è mai stata una “organizzazione” terrorista in senso stretto. La sua radicalità politica era nota, ma Hamas era al governo, alla luce del sole, di un territorio dove aveva vinto (più o meno correttamente) delle elezioni. Come Hezbollah in Libano, rappresentato nel Governo Centrale e a capo di centinaia di Municipalità del Sud, dopo varie tornate elettorali.
La sua è una lettura integralista dell’Islam sunnita, ma lontana dal fondamentalismo religioso, fanatico e settario di Al Qaeda o Isis (e anche del wahabismo radicale dell’Arabia Saudita). Una lettura ispirata all’”Islam politico” dei Fratelli Mussulmani. Quello che ha guidato i vincitori delle elezioni al Cairo, dopo la cacciata di Mubarak nel 2011 e che fu spazzato via dal colpo di Stato di Al Sisi. Quello al Governo, per anni, nella Tunisia, “unica nazione in via di democratizzazione” (si diceva in Occidente), dopo le Primavere Arabe. Quello che ispira il “neo ottomano” Erdogan, membro della Nato. Quello al Governo nella Libia tripolina, riconosciuta dall’ONU e preferita dall’Italia.
A parziale avvaloramento di queste considerazioni di “pragmatismo” politico (fin qui…) di questa formazione, va sottolineata la forte alleanza di Hamas proprio con Hezbollah, che è sciita. Siamo molto lontani da quel parallelismo superficiale che qualcuno oggi fa con Isis, che aveva invece scelto gli Sciiti come bersaglio principale dei suoi massacri. Non è la religione la chiave interpretativa capace di svelare le ragioni dei comportamenti feroci di Hamas.
Infine, la definizione di organizzazione terrorista da parte di Israele, del Dipartimento di Stato USA e di molti altri governi (ma non certo unanime nello scenario internazionale), non ha mai impedito, sempre fin qui, comportamenti sostanziali, “sul campo”, che hanno fatto di Hamas un interlocutore politico, controverso, difficile, a volte scarsamente affidabile, ma non per questo escluso (se non ufficialmente…) dalla linea del confronto anche con settori della sicurezza di Israele.
L’ambiguità del termine “terrorismo”
Non esiste una definizione unica, a livello internazionale “formalmente” condivisa, di terrorismo. Possiamo, però, sforzarci di individuare un minimo comune denominatore in questa frase: “un’ azione violenta contro la popolazione civile finalizzata a terrorizzarla, al fine di spingerla a condizionare le scelte della sua leadership”. Se convenissimo con essa, dovremmo convincerci che nella storia di molti Stati, tra cui di molti campioni di democrazia, questo “terrorismo” non è mancato. Per rimanere nella contemporaneità: dai bombardamenti mirati contro i civili nella Seconda Guerra Mondiale, fino alle lotte di liberazione anti-coloniale o per la nascita di molte Nazioni (tra cui la stessa Israele).
Hamas aveva certo organizzato, in passato, azioni terroriste, ma la sua “politica” non si era mai limitata ad esse (a differenza di quanto fatto da Al Qaeda o delle “Brigate Rosse”, ad esempio). Hamas, soprattutto, non è mai stata un’ organizzazione clandestina. L’uso odierno del termine “organizzazione terrorista”, del resto, mira, come in passato, a togliere legittimità di esistenza ai “nemici”. Unisce sotto il termine terrorismo la protesta politica di piazza (come nella legislazione della Arabia Saudita o nella interpretazione della “Costituzione” da parte della “Clerocrazia” iraniana), le sommosse, l’azione militare, l’attentato contro i civili. Tutti comportamenti che potrebbero essere anche presenti in uno stesso Movimento, magari in fasi diverse, ma che richiedono risposte politicamente articolate, differenziate nella applicazione della forza, selettive nella individuazione dei responsabili, puntuali e non indiscriminate, come del resto suggeriva un documento dell’OCSE già nel 2018.
Per capire meglio effetti e danni dell’uso strumentale e non preciso del termine “terrorismo”, è, forse, utile ricordare che le Organizzazioni combattenti curde del Nord della Siria, che hanno contribuito, in modo decisivo, a sconfiggere sul campo l’ Isis, peraltro con l’aiuto delle armi e dei bombardamenti di supporto degli USA, sono oggi considerate dalla Turchia, dalla Nato, dallo stesso Dipartimento di Stato americano, “terroristi”, come lo è l’Isis…
Brutalità, avventurismo, arroganza
Nel 2004, un autore anonimo con lo pseudonimo di Abu Bakr Naji predispose per il web e per la stampa, un ampio “pdf” dal titolo “The management of savagery”. L’opera (il cui titolo fu poi ripreso anche da altri autori e studiosi per pubblicazioni ufficiali sul tema del terrorismo) era uno sforzo di spiegare l’importanza della brutalità, della ferocia nell’azione terroristica e per indicare cosa, concretamente, potesse e dovesse essere fatto al proposito. Fu un manuale per Al Qaeda. E’ stata una guida molto influente per le azioni di Isis.
Mostrare la ferocia della bestia selvaggia in una azione di violenza è, del resto, una tattica conflittuale abbastanza antica: la violenza non è sempre la stessa; non ha sempre lo stesso livello, lo stesso significato. Come disse anche Roberto Toscano nel suo breve ma fondamentale “La violenza, le regole” (2006), l’intero diritto umanitario è nato proprio con l’obiettivo non di abolire, ma di ridurre, mitigare la violenza. Se possibile, darle delle regole. La gravità di una sparatoria non è la stessa dello squartamento di un civile. Non si debbono usare armi chimiche, ma non è lo stesso per i missili convenzionali.
La scelta di Hamas è una novità, per la sua politica. Ha scelto la violenza estrema, la “gestione della brutalità”, che, per definizione, non prevede “ritorno”. Che c’è al fondo di questa specie di salto nell’orrore?
Ci sono diverse illusorie aspettative. La prima è, senz’altro, cercare di incutere paura, sconcerto, spaesamento nella popolazione civile del nemico e perfino tra le truppe. Vuol dire “non accettiamo vie di mezzo nel nostro scontro, né mediazioni. Esso è totale e senza pietà. Non ci fermeremo…”. Un’ altra è di tentare di provocare reazioni scomposte, irrazionali, di vendetta cieca delle forze avversarie nell’idea che così facendo tali Forze possano perdere qualsivoglia valore etico nei loro comportamenti, “sprofondando” nell’illegalità; oggi, ad esempio, non rispettando il “diritto umanitario”. Cadere, da parte dei colpiti, nella trappola del “dente per dente” riduce, secondo queste “aspettative”, anche l’efficacia politica ed ideologica della difesa.
Le azioni brutali di Hamas, finalizzate a terrorizzare, dicono dunque che Hamas non intende tornare indietro, al “tran tran” del lancio di razzi, spesso rudimentali, cui rispondono bombe d’aviazione con danni più o meno “controllati”. Perché questa scelta ora? Cosa c’è da capire meglio?
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