(Marco Emanuele)
Come se bastasse un muro. Mentre gli europei discutono delle tattiche per affrontare le migrazioni, il Presidente americano Biden autorizza la costruzione di 32 chilometri della barriera di sicurezza in Texas, al confine con il Messico. Che gli Stati abbiano il diritto-dovere di difendersi è giusto, ma resta da discutere il loro ruolo in un mondo in radicale e profonda trasformazione. Che non è solo cambiamento. Comunque, per restare nel nostro mondo transatlantico, da entrambe le sponde il tema è (sempre) lo stesso: tra non molto si vota.
Crediamo che la questione migratoria, ben presente in ogni parte del mondo (tra i Paesi e i continenti e all’interno di essi), abbia bisogno di un passo in avanti decisivo a livello geostrategico. Dovrebbe essere chiaro, infatti, che fenomeno epocale, qualunque esso sia, chiede soluzioni complesse.
Occorre elevare il tema delle migrazioni oltre gli auto-inganni che ci siamo costruiti in questi anni. Il panorama geopolitico, anche in conseguenza di disastri naturali più o meno prevedibili, è diventato via via più difficile da comprendere e da governare; l’accoglienza senza regole chiare a livello europeo, dunque senza visione politica, ha generato altro disagio sociale (basta camminare nelle nostre città) oltre a quello già vissuto dagli autoctoni (le cittadinanze ‘stanche’ non permettono ‘supplementi di pazienza’); le identità hanno subito un processo di radicalizzazione sempre più evidente e le divisioni, anche complici misinformazione e disinformazione, si sono fatte più profonde; la sicurezza, certamente importante, non aiuta – da sola – a garantire il governo del fenomeno.
Governo del fenomeno: ecco il tema. Pensiamo che un approccio possibile, non limitandosi al presente imminente ma guardando alla sua storicità (leggi ‘in prospettiva’), passi attraverso ‘patti per il lavoro migrante’. Se bisogna dialogare con tutti, anche con gli autocrati per tentare di gestire tatticamente una fase difficile, l’Italia deve sfruttare la sua posizione geografica per dire all’Europa che, per non ritrovarsi campo profughi del Vecchio Continente (oggi non siamo dentro un’invasione, domani chissà …), potrebbe diventare un hub di formazione professionale per i mercati del lavoro nazionali. Così funzionerebbe una vera regolazione dei flussi, intanto modulata sulle reali esigenze dei mercati del lavoro nei diversi Paesi europei. Bruxelles dovrebbe investire sull’Italia, attraverso un accordo tra governi e associazioni datoriali, e stabilire redistribuzioni fondate su un principio di effettiva necessità dei diversi sistemi economici. Il che, naturalmente, non eliminerebbe il problema alla fonte: avrebbe senso, in questa prospettiva, lavorare in Africa per migliorare le condizioni di vita e politico-istituzionali di popolazioni e di Paesi che sono costantemente in bilico (l’elenco è noto a tutti, fin dentro il Sahel), anche chiedendo all’ONU e alle sue agenzie di monitorare le situazioni lungo frontiere sempre più porose e, dunque, sempre meno controllabili. In Africa non possono muoversi gli Stati nazionali.
Continueremo a lavorare per immaginare soluzioni che contengano visioni politiche. La salvaguardia della vita, principio primo che deve condurre ogni azione umana, passa dal piano della decisione geostrategica. Crediamo insostenibile un futuro del mondo costruito sulla sommatoria di ‘Stati fortezze’: crediamo nella società aperta ma, contrariamente a quanto è stato fatto fino a ora, governate politicamente.
(English version)
As if a wall were enough. While Europeans discuss tactics to deal with migration, US President Biden authorises the construction of 32 kilometres of security barrier in Texas, on the border with Mexico. That States have a right-duty to defend themselves is fair enough, but their role in a world undergoing radical and profound transformation remains to be discussed. Which is not just change. However, to remain in our transatlantic world, on both sides the theme is (always) the same: we will soon be voting.
We believe that the migratory issue, which is well present in every part of the world (between and within countries and continents), needs a decisive step forward at the geostrategic level. Indeed, it should be clear that this epoch-making phenomenon, whatever it may be, calls for complex solutions.
We need to elevate the issue of migration beyond the self-deceptions we have built up in recent years. The geopolitical landscape, also as a consequence of more or less predictable natural disasters, has gradually become more and more difficult to understand and govern; reception without clear rules at a European level, and therefore without political vision, has generated further social unease (just walk around our cities) in addition to that already experienced by the natives (‘tired’ citizenships do not allow for ‘extra patience’); identities have undergone an increasingly evident process of radicalisation and divisions, also due to misinformation and disinformation, have become deeper; security, certainly important, does not help – on its own – to ensure government of the phenomenon.
Government of the phenomenon: that is the issue. We think that a possible approach, not limiting itself to the imminent present but looking at its historicity (read ‘in perspective’), passes through ‘pacts for migrant labour’. If it is necessary to dialogue with everyone, even with autocrats to try to tactically manage a difficult phase, Italy must take advantage of its geographical position to tell Europe that, in order not to find itself a refugee camp on the Old Continent (today we are not in an invasion, tomorrow who knows …), it could become a professional training hub for national labour markets. In this way a real regulation of flows would work, in the meantime modulated on the real needs of the labour markets in the different European countries. Brussels should invest in Italy, through an agreement between governments and employers’ associations, and establish redistributions based on a principle of real needs of the different economic systems. This, of course, would not eliminate the problem at source: it would make sense, in this perspective, to work in Africa to improve the living and political-institutional conditions of populations and countries that are constantly on the brink (the list is known to all, even as far as the Sahel), also by asking the UN and its agencies to monitor the situations along borders that are increasingly porous and, therefore, less and less controllable. In Africa, nation States cannot move.
We will continue to work to imagine solutions that contain political visions. The preservation of life, the first principle that must guide all human actions, passes through the level of geostrategic decision-making. We believe that a future of the world built on the sum of ‘fortress States’ is unsustainable: we believe in open societies but, contrary to what has been done so far, governed politically.
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