La strada dell’insostenibilità – The road of unsustainability – La voie de la non-durabilité

Pendolo, Carta Geografica, Navigazione

E’ tutt’altro che facile, nella fase storica che viviamo, trovare un punto di uscita dal circolo vizioso nel quale siamo immersi. La velocità e la radicalità delle dinamiche storiche, nel contesto di un mondo multipolare ben visibile a occhio nudo a chi ragiona con talento complesso, sono l’elemento con il quale dobbiamo confrontarci.

La concomitanza tra megacrisi degenerativa, guerra mondiale a pezzi e rivoluzione tecnologica è la grande sfida da affrontare. Ed è una concomitanza che progredisce nella interrelazione profonda di ciò che accade: nulla è distaccato dal resto. Questo risulta essere un problema per le nostre mentalità ancorate a paradigmi adatti a un mondo che non c’è più, quello in cui – in un più o meno chiaro equilibrio bipolare – c’erano certezze di fondo; era un mondo nel quale lo sviluppo tecnologico non aveva raggiunto frontiere così innovative e l’evidenza limpida delle sue opportunità e dei suoi rischi.

Siamo affascinati dall’approfondire cosa sarà dell’intelligenza artificiale ma la situazione attuale porta (già) con sè una complessità così potente che non può essere elusa dalla nostra responsabilità, chiamata a un compito arduo: le strategie di convivenza e la ricerca dell’ordine mondiale sono possibili solo con un approccio dall’alto e nel profondo, di ricerca nella condizione umana che – oggi più che mai – mostra le capacità dell’uomo di rinascere così come di autodistruggersi.

In termini semplici, ma non semplicistici, dobbiamo lavorare sulla domanda più difficile di tutte: com’è possibile rigenerare la speranza ? e com’è possibile farlo nella fluidità di un mondo che ha l’aspetto di un gigantesco cantiere ? Anzitutto, crediamo, ritornando a conoscere.

I futuri dipendono da noi. Prima di chiederci ‘cosa sarà’ dovremmo guardarci dentro, ricominciare a sentire la storia comune come nostra casa e lavorare insieme sulla sostenibilità sistemica di un mondo che, al contempo, ci comprende e ci supera. Anche i più sentiti appelli morali, pensiamo a quelli per la pace e la giustizia, rischiano di scontrarsi con una realtà che, per nostra stessa volontà, va in direzione contraria: ci vuole una metanoia, una reale trasformazione in ciascuno di noi per ricominciare a pensare il rapporto tra ogni parte e il tutto, tra il particolare e il comune.

Tutto questo non può più essere risolto attraverso inviti all’esercizio di responsabilità, a scegliere il bene e così via. Dovremmo maturare l’onestà intellettuale di conoscere chi siamo se vogliamo lavorare efficacemente, in termini di sostenibilità, sul chi diventiamo.

Per troppi anni, dalla caduta del muro di Berlino a oggi, ci siamo illusi che le relazioni internazionali fossero sostenibili separando i mondi, operando una sorta di distinguo netto tra i portatori sani del bene e gli altri, coloro che incarnavano il male a prescindere (un male che, con tutta evidenza, va contrastato). Siamo andati avanti così, cercando di determinare il destino degli altri, senza considerare che, dall’alto, i rapporti di potere non avvantaggiavano più soltanto una parte e che, nel profondo, le comunità umane si facevano progressivamente più disuguali nella crescente persistenza, fin dal linguaggio, della violenza banale.

La conoscenza dovrebbe concentrarsi sulla radicalizzazione identitaria: è lì, infatti, che si genera quel male che cerchiamo di contrastare con l’ulteriore rafforzamento delle radicalizzazioni reciproche e rispetto al quale non ci interroghiamo operando una metanoia intrapersonale, interpersonale e globale. Questo punto, profondamente politico, pare essere del tutto assente: se i rapporti di forza e gli interessi particolari non sono eliminabili dal palcoscenico della storia, non foss’altro perché siamo portatori di differenze, scegliere la loro radicalizzazione significa percorrere la strada dell’insostenibilità.

english version

It is far from easy, in the historical phase in which we live, to find a way out of the vicious circle in which we are immersed. The speed and radicality of historical dynamics, in the context of a multipolar world clearly visible to the naked eye to those who reason with complex talent, are the element with which we have to deal.

The concomitance of degenerative mega-crisis, world war in pieces and technological revolution is the great challenge we face. And it is a concomitance that progresses in the deep interrelatedness of what is happening: nothing is detached from the rest. This turns out to be a problem for our mentalities anchored in paradigms suited to a world that no longer exists, the one in which – in a more or less clear bipolar equilibrium – there were basic certainties; it was a world in which technological development had not reached such innovative frontiers and the clear evidence of its opportunities and risks.

We are fascinated by delving into what will become of artificial intelligence, but the current situation (already) brings with it a complexity so powerful that it cannot be eluded by our responsibility, which is called to an arduous task: strategies of coexistence and the search for world order are only possible with an approach from above and in the depths, of research into the human condition that – today more than ever – shows man’s capacity to be reborn as well as to self-destruct.

In simple but not simplistic terms, we must work on the most difficult question of all: how is it possible to regenerate hope? And how is it possible to do so in the fluidity of a world that looks like a gigantic building site? First of all, we believe, by returning to knowledge.

Futures depend on us. Before asking ourselves ‘what will be’ we should look inside ourselves, begin to feel our common history as our home again, and work together on the systemic sustainability of a world that, at the same time, understands and surpasses us. Even the most heartfelt moral appeals, think of those for peace and justice, risk clashing with a reality that, by our own will, goes in the opposite direction: we need a metanoia, a real transformation in each of us to start thinking again about the relationship between each part and the whole, between the particular and the common.

This can no longer be resolved through invitations to exercise responsibility, to choose the good, and so on. We should mature the intellectual honesty to know who we are if we are to work effectively, in terms of sustainability, on who we become.

For too many years, from the fall of the Berlin Wall to the present, we have deluded ourselves into believing that international relations were sustainable by separating the worlds, by making a sort of clear-cut distinction between the healthy bearers of good and the others, those who embodied evil regardless (an evil that, clearly, must be opposed). We went on like this, trying to determine the fate of others, without taking into account that, from above, power relations no longer benefited only one side and that, deep down, human communities were becoming progressively more unequal in the growing persistence, right from the language, of trivial violence.

Knowledge should focus on identity radicalisation: it is there, in fact, that the evil that we try to counter with the further strengthening of reciprocal radicalisations and with respect to which we do not question ourselves by operating an intrapersonal, interpersonal and global metanoia is generated. This profoundly political point seems to be entirely absent: if power relations and particular interests cannot be eliminated from the stage of history, if only because we are the bearers of differences, choosing their radicalisation means going down the road of unsustainability.

version française

Il n’est pas facile, dans la phase historique que nous vivons, de sortir du cercle vicieux dans lequel nous sommes plongés. La rapidité et la radicalité des dynamiques historiques, dans le contexte d’un monde multipolaire clairement visible à l’œil nu pour qui raisonne avec un talent complexe, sont les éléments avec lesquels nous devons composer.

La concomitance d’une méga-crise dégénérative, d’une guerre mondiale par morceaux et d’une révolution technologique est le grand défi auquel nous sommes confrontés. Et c’est une concomitance qui progresse dans la profonde interdépendance de ce qui se passe : rien n’est détaché du reste. Cela s’avère être un problème pour nos mentalités ancrées dans des paradigmes adaptés à un monde qui n’existe plus, celui dans lequel – dans un équilibre bipolaire plus ou moins clair – il y avait des certitudes de base ; c’était un monde dans lequel le développement technologique n’avait pas atteint de telles frontières innovantes et l’évidence de ses opportunités et de ses risques.

Nous sommes fascinés par l’idée de savoir ce qu’il adviendra de l’intelligence artificielle, mais la situation actuelle est (déjà) porteuse d’une complexité si puissante qu’elle ne peut échapper à notre responsabilité, qui est appelée à une tâche ardue : les stratégies de coexistence et la recherche de l’ordre mondial ne sont possibles qu’avec une approche d’en haut et en profondeur, une recherche sur la condition humaine qui – aujourd’hui plus que jamais – montre la capacité de l’homme à renaître aussi bien qu’à s’autodétruire.

En termes simples, mais non simplistes, nous devons travailler sur la question la plus difficile qui soit : comment régénérer l’espoir et comment le faire dans la fluidité d’un monde qui ressemble à un gigantesque chantier ? D’abord, croyons-nous, en revenant à la connaissance.

Les futurs dépendent de nous. Avant de nous demander “ce qui sera”, nous devrions regarder en nous-mêmes, recommencer à ressentir notre histoire commune comme notre maison, et travailler ensemble à la durabilité systémique d’un monde qui, en même temps, nous comprend et nous dépasse. Même les appels moraux les plus sincères, comme ceux en faveur de la paix et de la justice, risquent de se heurter à une réalité qui, par notre propre volonté, va dans la direction opposée : nous avons besoin d’une métanoïa, d’une véritable transformation en chacun de nous pour recommencer à penser à la relation entre chaque partie et le tout, entre le particulier et le commun.

Cela ne peut plus être résolu par des invitations à exercer la responsabilité, à choisir le bien, etc. Nous devons mûrir l’honnêteté intellectuelle de savoir qui nous sommes si nous voulons travailler efficacement, en termes de durabilité, sur ce que nous devenons.

Pendant trop d’années, de la chute du mur de Berlin à aujourd’hui, nous avons eu l’illusion de croire que les relations internationales étaient durables en séparant les mondes, en faisant une sorte de distinction nette entre les porteurs sains du bien et les autres, ceux qui incarnaient le mal malgré tout (un mal qui, évidemment, doit être combattu). On a continué ainsi, en essayant de déterminer le sort des autres, sans tenir compte du fait que, d’en haut, les rapports de force ne profitaient plus à un seul camp et qu’au fond, les communautés humaines devenaient de plus en plus inégalitaires dans la persistance croissante, dès le langage, de la violence banale.

La connaissance doit se concentrer sur la radicalisation identitaire : c’est là, en effet, que se génère le mal que l’on tente de contrer en renforçant encore les radicalisations réciproques et face auquel on ne se remet pas en cause en opérant une métanoïa intrapersonnelle, interpersonnelle et globale. Ce point profondément politique semble totalement absent : si les rapports de force et les intérêts particuliers ne peuvent être éliminés de la scène de l’histoire, ne serait-ce que parce que nous sommes porteurs de différences, choisir leur radicalisation, c’est s’engager sur la voie de l’insoutenabilité.

Marco Emanuele
Marco Emanuele è appassionato di cultura della complessità, cultura della tecnologia e relazioni internazionali. Approfondisce il pensiero di Hannah Arendt, Edgar Morin, Raimon Panikkar. Marco ha insegnato Evoluzione della Democrazia e Totalitarismi, è l’editor di The Global Eye e scrive per The Science of Where Magazine. Marco Emanuele is passionate about complexity culture, technology culture and international relations. He delves into the thought of Hannah Arendt, Edgar Morin, Raimon Panikkar. He has taught Evolution of Democracy and Totalitarianisms. Marco is editor of The Global Eye and writes for The Science of Where Magazine.

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