Immersi in un cambio di era, concentriamo la nostra ricerca sull’importanza di un approccio complesso – dall’alto e nel profondo – alla realtà.
Vivere una grande trasformazione come l’attuale, in un mondo-in-metamorfosi, significa anzitutto trasformarci, capire che i nostri paradigmi non sono più adeguati per comprendere e per governare il tempo attuale.
E’ al contempo faticoso e necessario ri-tarare il nostro approccio. In termini di progresso ci siamo spinti molto avanti mentre assistiamo, soprattutto negli ultimi decenni successivi all’implosione dell’Unione Sovietica e alla fine dell’equilibrio bipolare, a una regressione della capacità politica di decisione strategica.
Questo punto è decisivo per cercare di elaborare prospettive e scenari. Serve un pensiero della complessità per ri-fondare la politica. Si tratta di un esercizio che non può mai avere fine perché deve accompagnare l’evoluzione-involuzione di realtà: per questa ragione, la nostra ricerca è cammino in progress.
Cominciamo dall’incertezza che non è parola negativa ma l’essenza della condizione umana. Siamo noi, infatti, che attraverso l’esercizio della nostra responsabilità apriamo prospettive di generazione e/o di de-generazione. La rivoluzione tecnologica è un esempio chiarissimo: le nuove frontiere dell’intelligenza artificiale, soprattutto di quella generativa, portano grandi opportunità e altrettanti rischi.
Il nostro agire non è mai neutro perché noi siamo tante dinamiche com-presenti. L’incertezza matura in un quadro di crescente complessità. Pace e guerra, crescita e de-crescita, ordine e disordine, globalizzazione e ri-territorializzazione, e così via, sono opposti che appartengono all’incertezza-che-siamo. Un pensiero complesso è ciò che serve per ri-congiungere ciò che, nel profondo, ci riguarda e che, spesso ipocritamente, separiamo per contrapporre la realtà del bene a quella del male.
Siamo esseri umani contraddittori e partire da questa consapevolezza è fondamentale. Nessuno, dunque, può ergersi a giudice della storia. Il nostro cammino è naturalmente incerto e separare per contrapporre è la naturale deriva della non accettazione di tale incertezza.
Uno dei punti focali di questa ricerca è la presa d’atto della nostra condizione che diventa, noi agenti, condizione-di-realtà. La scelta, sostanzialmente a-politica, compiuta negli ultimi decenni, è stata di negazione della nostra complessità e contraddittorietà: così facendo, il mondo si è configurato come mondo-uno, interrelato in ragione della globalizzazione ma sommatoria di mondi, e non come mondo-mosaico, inter-in-dipendenza di mondi non separabili.
Il mondo-uno sta mostrando i suoi limiti profondi. Esso è sommatoria di “costituiti” non dialoganti. Tutto ciò che è “costituito” perde progressivamente energia vitale e tende a radicalizzarsi, a perdere generatività e a esasperare l’autosufficienza. Viviamo in una cronaca quotidiana nella quale gli attori statuali, per ragioni soprattutto tattiche, contribuiscono a formare fronti contrapposti: l’espressione “democrazie vs autocrazie” è ormai entrata nel dibattito pubblico e nella decisione strategica.
Una delle parole più utilizzate è “vincere” e una delle espressioni considerate vincenti è “occorre scegliere da che parte stare”. Diciamo subito che i sistemi democratici hanno permesso, per molti decenni (pur con alterne fortune nel corso del ‘900), di garantire pace e prosperità; diciamo altresì che la globalizzazione ha tolto dalla povertà materiale una parte importante dell’umanità. Diciamo anche, in spirito complesso, che se guardiamo alla prospettiva geostrategica della sostenibilità politica del mondo e dei mondi, la strada della separazione e della contrapposizione tra amici e nemici rischia di aggravare ulteriormente una situazione planetaria molto delicata.
Una posizione complessa e critica, nel mondo-uno percorso da una megacrisi de-generativa e nel pieno di una guerra mondiale a pezzi, intende superare un doppio equivoco, portatore di auto-inganni: avere un pensiero appiattito sulle logiche mainstream così come insistere su un pensiero antagonista. Entrambe queste logiche appartengono all’ equilibrio lineare di un mondo che non c’è più. Entrambe queste logiche, inoltre, negano che il problema sia ri-pensare per ri-fondare un approccio politico, e dialogante, nel mondo-in-metamorfosi.
Ci vuole visione strategica a partire dalla consapevolezza di un giudizio storico nel mondo-uno. Le voci ingenue, pur se rispettabili, di chi vorrebbe una pace a ogni costo sono un retaggio non problematizzato politicamente: altrettanto, le posizioni di chi invoca un governo mondiale non tengono conto dei rapporti di potere che costituiscono l’ossatura del mondo-uno e la cui esistenza non può essere cancellata dal palcoscenico della storia. Semmai, occorrebbe invocare un realismo complesso e, di fronte alla guerra, valorizzare e rafforzare i tentativi di chi cerca, avendo o meno interessi in campo, di aprire fronti negoziali.
La transizione dal mondo-uno al mondo-mosaico passa attraverso il centro. Oggi come oggi siamo in una situazione di evidente difficoltà: tutti vorrebbero essere il centro del mondo, “abitarlo” e, da lì, dominare. In tale logica, la tattica non può che essere escludente e a-dialogante. Mentre i grandi player si combattono il centro, papa Francesco pratica una diplomazia della misericordia, si cala nelle periferie esistenziali e accarezza le ferite della storia.
Il mondo-uno ha un centro molto affollato. I “costituiti” si assommano e la competizione aumenta e diventa sempre più esasperata: ciò comporta, inevitabilmente, un crescente bisogno di sicurezza e di vittoria, lungi dal naturale bisogno d’immunizzazione e di difesa. Il mondo-uno, in questa situazione, non accoglie gli infiniti respiri della storia che, negati da rapporti di potere in continua radicalizzazione, fanno parte, chiedendo riconoscimento, di un ambiente strategico sempre più degradato.
Come si può capire, il tema è di rilevanza sistemica. La rincorsa verso un ordine al centro è la dimostrazione dell’a-politicità della situazione attuale: mostra l’incapacità di muoversi strategicamente verso un mondo sostenibile. La grande contraddizione, oltre che nel voler separare e contrapporre bene e male (mentre entrambi ci riguardano), è nel pensare che tutto si risolva al centro e che, portando all’estremo i reciproci interessi di potere, si possa giungere a un ordine e lo si possa consolidare.
Nella transizione dal mondo-uno al mondo-mosaico, si pone come necessario l’avvio di un processo di de-centralizzazione. Occorre un grande investimento culturale e la messa-in-comune di sensibilità e competenze che, oltre a riconoscere la complessità-di-fatto della realtà, lavorino per “nuove” architetture anche giuridiche. I canali di dialogo sono fondamentali per governare la transizione.
La questione sistemica è di immaginare un mondo a-centrico. Questo crediamo possa essere il futuro della politica e di relazioni internazionali sostenibili. Se velocità, flessibilità e radicalità sono parole adeguate a descrivere il cambio di era, può una tattica di corsa al centro rappresentare uno scenario praticabile ?