Introduzione
Lo “sviluppo umano integrale” è complesso in essenza e va costruito, con mediazione e intelligenza visionaria, dentro alle naturali contraddizioni del reale.
Generazione e de-generazione sono opposti compresenti, non separabili. Nulla di ciò che accade dentro e intorno a noi, infatti, giustifica la separazione del mondo tra buoni e cattivi, tra assi generativi e assi de-generativi. Ciò non significa, lo ribadiamo, che non esista il male e che non vada sconfitto: il punto è che il superamento del male non avviene, e non avverrà, attraverso la radicalizzazione del/nel bene. E’ illuminante un passaggio di Antonio Spadaro (2023) laddove scrive della coscienza che il mondo non è diviso tra bene e male, tra i buoni e i cattivi. La scelta non è il discernimento delle forze (…) con cui allearsi e da sostenere per far trionfare il bene. Questa accettazione della conversazione diplomatica si fonda sulla certezza che non si dà a questo mondo l’impero del bene. Per questo bisogna dialogare con tutti. Il potere mondano è definitivamente desacralizzato. Se chi fa il politico è chiamato a farsi “santo” proprio facendo il politico, operando per il bene comune, d’altra parte nessun potere politico è “sacro”. (1)
Il cammino nello sviluppo umano integrale incrocia quello nel giudizio storico per decisioni strategiche pertinenti. Il governo dei processi storici non può essere separato da un paziente lavoro di ri-composizione della realtà a ogni livello. Si tratta di un unico processo, da impostare con realismo visionario, perché le classi dirigenti – senza generalizzare ma in molti casi portatrici insane di pensiero solo lineare – avranno sempre maggiori difficoltà a governare un mondo e mondi percorsi da una crescente megacrisi de-generativa.
Anzitutto, occorre prendere consapevolezza che non esiste un centro. La transizione verso un nuovo ordine mondiale, con in corso una gigantesca ricomposizione dei poteri (cambio di era), può trovare una risposta sostenibile solo nel ritorno alle periferie esistenziali come luoghi strategici (in logica complessa, di sofferenza-disagio e di opportunità): che cosa ha significato, da parte di Papa Francesco, definire nel 2015 Bangui (capitale della Repubblica Centrafricana) “capitale spirituale del mondo” ? C’è molto in quella scelta ma, soprattutto, c’è una visione: tutte le parti del mosaico-mondo esprimono una dignità irrinunciabile, che va oltre i rapporti di forza che vorrebbero sovrapporre l’essere parte all’ essere il Tutto. Ogni tassello del mosaico-mondo rappresenta la complessità del Tutto, pur non esaurendolo, e la nostra responsabilità strategica è di contribuire a legare i tasselli, non a scegliere il tassello mano a mano vincente come centro, in tal modo spezzando ogni volta il Tutto-mosaico.
La realtà ci dice anche che ogni vita porta dentro la complessità dell’intera umanità. Per questo, ogni naufragio esistenziale è una sconfitta per tutti: la figura del migrante assume un’importanza decisiva in chiave di sguardo nell’umano. La figura del migrante non è solo di chi fugge da un luogo a un altro del pianeta ma, soprattutto, riguarda chi vive il naufragio esistenziale nelle società cosiddette sviluppate.
Oltre che nella ricomposizione dei poteri, dunque, il cambio di era si manifesta nelle periferie e nei naufragi esistenziali. In questo mare in tempesta, che noi stessi abbiamo reso tale (generazione/de-generazione), lo sviluppo umano integrale deve essere faro in un cammino progettuale, indicare l’oltre che già appartiene al nostro presente. Lo sviluppo umano integrale, oltre che di classi dirigenti ri-abituate alla complessità e formate al pensiero complesso, ha bisogno d’intellettuali impegnati come cittadini consapevoli del proprio ruolo storico dentro la vita che evolve-involve.
Cominciamo questa ricerca riflettendo sui contenuti di un documento straordinario, risalente al 1967, l’enciclica “Populorum Progressio” di Paolo VI.
“Per una partecipazione più larga ai frutti della civiltà” (2)
La civiltà, processo dinamico tra avanzamenti e arretramenti, generazioni e de-generazioni, appartiene all’intera umanità. Lo scarto e l’esclusione agiscono a favore dell’insostenibilità politico-strategica del mondo e dei mondi.
Se guardiamo alla storia degli ultimi trent’anni, dalla caduta del muro di Berlino e dall’implosione dell’Unione Sovietica ai giorni nostri, possiamo considerare i frutti positivi della fase di globalizzazione che stiamo vivendo così come i limiti, le crepe e i rischi crescenti e sistemici.
La storia non è finita, contrariamente all’illusione di inizio anni ’90, quando si pensò che, sconfitto il nemico, democrazia ed economia di mercato avrebbero garantito pace e benessere per tutti. Sappiamo che non è andata così. In nome di quella illusione, in modi e tempi diversi, si sono aperte le società in maniera pressoché indiscriminata, si è accelerato sull’uso incontrollato delle risorse naturali, si è disinvestito ideologicamente dall’intervento pubblico credendo che le logiche di mercato avrebbero risolto ogni problema pressoché automaticamente, si è scelta la strada dell’esasperazione competitiva in luogo di una più sostenibile “competizione cooperativa”, non ci si è applicati sulla risposta migliore a quale ordine dovesse sostituire quello caduto con la fine del mondo bipolare. Insieme ai frutti positivi che abbiamo raccolto in questi ultimi trent’anni, l’insostenibilità politico-strategica che ci troviamo a vivere mostra – tra i suoi frutti avvelenati – il progressivo ritorno delle identità al passato, ciò che genera – secondo Papa Francesco – le tentazioni identitarie. (3)
Tutti partecipano e parteciperanno al banchetto della civiltà ? Siamo tra coloro che preferiscono guardare alla realtà nella conoscenza delle dinamiche che percorrono il mondo, scegliendo un pensiero critico e complesso e non un pensiero antagonista e solo lineare. Sottolineiamo, per dare una prima risposta, come le crescenti disuguaglianze che viviamo non aiutino le maggioranze nelle comunità umane, pur nelle differenze di reddito e di posizione sociale, a vivere dignitosamente. Non a caso, a cominciare dalle “società aperte”, l’illusione della “fine della storia” si è infranta al risveglio nelle tante storie che ricominciano.
Nell’aprire le società, come se il farlo senza un efficace quadro planetario di regole e di protezioni fosse in sé risolutivo, abbiamo gettato l’umanità in mare, non preoccupandoci adeguatamente dei tantissimi incapaci di nuotare. Ci eravamo illusi che, così facendo, tutti avrebbero trovato il modo di costruirsi una vita e che il mondo sarebbe stato la nuova casa per la partecipazione di tutti alla civiltà. Non c’è stato un “accompagnamento strategico” in questa sfida del nuotare al largo e il crescere e il moltiplicarsi di sospetti, paure, guerre, radicalizzazioni identitarie e statuali, e quant’altro, lo dimostrano.
Insomma, non basta aprire indiscriminatamente le società perché tutti possano partecipare alla civiltà. L’immunizzazione, in maniera crescente negli ultimi anni, soprattutto in conseguenza delle migrazioni e della pandemia, ha elevato il bisogno dei sistemi nazionali di proteggersi dall’esterno: pur se i rapporti economico-commerciali tra Paesi, con alterne fortune, continuano e in molti casi si rafforzano (anche con geometrie variabili), gli Stati diventano sempre più burocratici e bisognosi di sicurezza e d’immunizzazione. Mentre i sistemi autocratici rafforzano la loro natura, le democrazie non sono esenti dal circolo vizioso della burocratizzazione (che nulla c’entra con la burocrazia intesa come apparato per l’amministrazione dello Stato) e del progressivo “svuotamento”.
Eppure, nella prospettiva di uno sviluppo umano integrale, il tema di una “partecipazione più larga ai frutti della civiltà” è strategico. I frutti positivi del “prendere il largo” riguardano ciò che potremmo sinteticamente definire l’incontro e lo scambio tra culture e competenze: è innegabile che, pur nelle difficoltà, la transnazionalità di fatto (molto più naturale per le giovani generazioni) abbia permesso il fiorire e il consolidarsi di dialoghi culturali e di esperienze di vita e professionali capaci di con-dividere la globalità (partecipare alla civiltà). Dall’altro lato, sono sempre di più coloro che non ce la fanno, che non arrivano a con-dividere l’umanità (gli esclusi dalla civiltà): è l’impossibilità degli esclusi a dover essere l’oggetto, in termini di riflessione e di decisioni strategiche, della nostra pre-occupazione.
I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza (4)
Le parole di Paolo VI, citate in nota, sono di straordinaria attualità. Colpisce come, nell’innegabile progresso che l’umanità ha sviluppato, per sua mano, negli ultimi decenni, la storia ci mostri oggi la stessa situazione: i popoli della fame interpellano in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. Colpisce perché, come notavamo, la realtà del mondo continua ad essere decisamente squilibrata pur in presenza di uno sviluppo straordinario in molti campi: il meccanismo strategico, operanti la nostra volontà e responsabilità-irresponsabilità, si è inceppato.
Non è possibile limitare il ragionamento alla maggiore o minore resilienza dei sistemi nazionali perché, nel cambio di era, è la situazione planetaria a dettare l’agenda. Ancora una volta, la figura del migrante ci aiuta a capire: muri culturali e fisici si elevano, in nome di una sovranità vissuta come sovranismo, laddove i tanti “ultimi della Terra” si muovono non alla ricerca di una vita migliore ma, ben più tragicamente, di una vita. Se le guerre, le violenze, l’impatto dei cambiamenti climatici non permettono più di vivere, perché quelle popolazioni non dovrebbero migrare, perché non dovrebbero bussare alle nostre porte ? Limitando il nostro sguardo all’Africa, da questa prospettiva si comprende perché quel continente sia da molti riconosciuto come la terra nel quale il pianeta si gioca il futuro: rispetto alla vecchia Europa, l’Africa presenta una demografia ben più giovane.
La scelta del continente europeo deve incontrare le ragioni della storia e del realismo. L’Europa ha bisogno dei migranti e, se non può accoglierli tutti e indiscriminatamente, ha la responsabilità di mettere mano a politiche attive di flussi regolari, per la redistribuzione tra i vari Paesi (non solo su base volontaria), per un aiuto efficace allo sviluppo autoctono in loco: l’Europa ha l’ulteriore responsabilità, esercitabile solo a livello continentale (nel quadro di un piano che coinvolga le Nazioni Unite) per essere efficace, di contrastare il traffico di esseri umani. Ancora guardando all’Africa, per responsabilità delle classi dirigenti di quei Paesi e di molti Paesi occidentali, è insostenibile il paradosso tra le immense ricchezze naturali e l’estrema povertà diffusa. Non da ultimo, l’Africa è diventata progressivamente un “osservato speciale” dal punto di vista geopolitico da parte dei player (si pensi alla Cina) in prima linea nella ridefinizione dell’ordine mondiale. Ma, compreso e al di là di tutto questo, perché le popolazioni offese e oppresse, non solo in Africa, non dovrebbero bussare alle nostre porte ?
In giro per il mondo, le strategie di contenimento non bastano più. La pressione della parte del mondo che per troppo tempo abbiamo considerata “altra da noi” diventerà insostenibile se le cose restano come sono. Ci vuole un radicale cambio di passo, serve un ri-pensamento radicale, complesso e profondo del senso dell’interesse nazionale nel quadro planetario. Se, come crediamo nella prospettiva di uno sviluppo umano sostenibile, deve prevalere il “destino planetario” che tutti comprende, gli Stati chiusi in confini ormai anti-storici devono aggiornare le loro visioni: il futuro già presente ci indica strade di con-divisione di sovranità e non percorsi di irrigidimento nelle rispettive sovranità (intese come sovranismi).
Nel considerare la pressione dei Paesi più poveri, il tema è geostrategico. Tante dinamiche si sovrappongono: quelle umanitarie, di sicurezza, di trasformazione sociale, di sostenibilità, di riconfigurazione dei rapporti di potere. E’ il mondo complesso dello “sviluppo umano integrale”.
Note
- Antonio Spadaro, L’atlante di Francesco. Vaticano e politica internazionale, Marsilio 2023, p. 24
- Paolo VI, Populorum Progressio (1): Lo sviluppo dei popoli, in modo particolare di quelli che lottano per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche, dell’ignoranza; che cercano una partecipazione più larga ai frutti della civiltà, una più attiva valorizzazione delle loro qualità umane; che si muovono con decisione verso la meta di un loro pieno rigoglio, è oggetto di attenta osservazione da parte della chiesa. All’indomani del Concilio Ecumenico Vaticano II, una rinnovata presa di coscienza delle esigenze del messaggio evangelico le impone di mettersi al servizio degli uomini, onde aiutarli a cogliere tutte le dimensioni di tale grave problema e convincerli dell’urgenza di una azione solidale in questa svolta della storia dell’umanità
- Antonio Spadaro, cit., p. 31
- Paolo VI, Populorum Progressio (3): Oggi, il fatto di maggior rilievo, del quale ognuno deve prender coscienza, è che la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale. Giovanni XXIII l’ha affermato nettamente, e il concilio gli ha fatto eco con la sua costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Si tratta di un insegnamento di particolare gravità che esige un’applicazione urgente. I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello