Sicurezza e Pensiero strategico nell’era di Davide contro Golia (di Giovanni Calabresi)

Uno dei grandi assenti in sede di decision making è spesso proprio quello che dovrebbe essere l’ospite d’onore, se non addirittura il padrone di casa, in tutti i luoghi in cui si decidono le sorti di una qualsiasi organizzazione o gruppo umano: il pensiero strategico.

Se da una parte esso risiede nell’empireo della meta-politica, in quanto ha a che fare con i modelli culturali e le forme pensiero a cui si ispira un popolo, o, comunque, un gruppo umano di riferimento, dall’altra, si declina nelle più pragmatiche forme della “Strategia”.

Infatti, al di là degli aspetti culturali e sociologico-filosofici correlati, pensare strategicamente consiste sostanzialmente nel ragionare per obiettivi, focalizzando l’attenzione sulle priorità operative, sui target intermedi, sulle risorse necessarie al raggiungimento degli obiettivi medesimi.

In sostanza, il tutto si riassume in una parola, tanto importante, quanto troppo spesso trascurata: “Pianificazione”.

Edward Luttwak, da oltre trent’anni a questa parte, offre un’analisi molto chiara di cosa si intenda per strategia, suddividendola in diverse tipologie, o meglio, in diversi “livelli”, dipendenti dall’ampiezza dello scenario, dal decisore di riferimento e da molti altri parametri.

Il ragionamento originario di Luttwak è legato al mondo e alle dinamiche militari e alla gestione dei conflitti, ma la trasformazione dello Scenario, dal 1989 ad oggi, anche, sotto il profilo tecnologico, consente, o addirittura, costringe, ad utilizzare gli stessi concetti e gli stessi principi adattandoli ai nuovi metodi e alla nuova realtà globale, quale quella in cui viviamo, tanto più se ci riferiamo al mondo della Sicurezza.

Ogni settore di azione e di “pensiero” richiede un ragionamento strategico. Ogni decisore, in qualsiasi campo dell’agire umano, deve, o meglio, dovrebbe operare tenendo in considerazione i diversi livelli strategici in cui si muove: dalla Grande Strategia, tipica delle realtà Statuali, al livello strettamente operativo, o, addirittura, tecnico.

Ogni livello strategico ha un suo decisore di riferimento, una propria organizzazione, una pianificazione e, ovviamente, adeguati obiettivi da conseguire, che dovrebbero confluire, tutti, in un unico grande disegno, in un obiettivo sistemico, tipico delle realtà organizzative complesse.

I singoli obiettivi parziali, misurabili, sia sotto il profilo qualitativo che quantitativo, dovrebbero, come affluenti, andare a riversarsi in un unico “disegno-fiume”, quale quello della Grande Strategia.

Il che si riassume nella necessità di ingredienti fondamentali, quali la capacità di leadership dei decisori, le competenze – da suddividere in capacità, conoscenze tecniche e soft skill – organizzazione, regole condivise, gerarchia e linee/canali di comunicazione chiare, nei diversi settori di interesse.

Questo, perché se è vero che – focalizzando l’attenzione sulla Sicurezza – essa si sostanzia nell’analisi delle minacce e nella gestione dei diversi rischi da esse derivanti, il pensiero strategico, come sopra descritto, contribuisce a ridurre gli spazi di incertezza, all’interno degli scenari complessi.

E questo è ancora più vero, nell’era della globalizzazione, della digitalizzazione, dell’informazione  e della rete, in cui l’incertezza tende a prevalere e la sicurezza non ha una dimensione lineare, ma multidimensionale. Gli spazi di incertezza aumentano in quanto i nodi della rete sono rappresentati da elementi sempre più dinamici, le cui azioni sono sempre meno prevedibili, nel tempo e nello spazio: gli individui. Ed è proprio qui l’importanza del pensiero strategico, in quanto i soggetti ed i gruppi organizzati devono muoversi in uno scenario in cui sono prevalentemente i singoli individui a rappresentare la minaccia, in una realtà in cui il confronto/conflitto è sempre più simile a quello rappresentabile con l’immagine di Davide contro Golia. E questo è vero sia che i singoli individui, potenziali agenti della minaccia, siano interni all’organizzazione, sia che siano esterni e, quindi, ancora più immersi nella nebbia dell’incertezza.

Laddove prevalga il pensiero strategico, gli spazi di incertezza possono essere ridotti ad un livello di generale accettabilità. Altrimenti, si è sopraffatti dalle logiche di urgenza ed emergenziali, dall’effetto sorpresa e dal caso; il che si traduce con la speranza di riuscire a mitigare il danno scaturente da rischi non gestiti.

Ecco che “Sicurezza” e pensiero strategico devono procedere a braccetto secondo una logica per la quale la Sicurezza stessa è contemporaneamente un obiettivo ed una condizione per un decision maker posto a qualsiasi livello di sistemi complessi e che abbia il compito, o si prefigga, di raggiungere obiettivi organizzativi senza subire gli “attriti”, per dirla con Clausewitz, posti sul suo cammino, dalla sempre più fitta “nebbia” dell’incertezza. Questa è la realtà odierna degli scenari complessi e multidimensionali in cui ogni singolo sassolino può bloccare i grandi ingranaggi.

Marco Emanuele
Marco Emanuele è appassionato di cultura della complessità, cultura della tecnologia e relazioni internazionali. Approfondisce il pensiero di Hannah Arendt, Edgar Morin, Raimon Panikkar. Marco ha insegnato Evoluzione della Democrazia e Totalitarismi, è l’editor di The Global Eye e scrive per The Science of Where Magazine. Marco Emanuele is passionate about complexity culture, technology culture and international relations. He delves into the thought of Hannah Arendt, Edgar Morin, Raimon Panikkar. He has taught Evolution of Democracy and Totalitarianisms. Marco is editor of The Global Eye and writes for The Science of Where Magazine.

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