Scuole e università: nel profondo del conflitto / Schools and universities: in the depths of the conflict

(Marzia Giglioli)

L’odio è soprattutto un racconto. Un riferimento che si replica per modelli che a loro volta replicano le diseguaglianze: gli uni contro gli altri. I conflitti hanno bisogno dell’odio. C’è qualcosa di più profondo in quello che sta accadendo nelle scuole e nelle università degli Stati Uniti.
Non è la ‘misura’ di quanto ci si schieri dalla parte dei palestinesi o di Israele. C’è un tema di fondo.
Ne discutono i media americani ma l’osservazione serve anche a noi, al di qua dell’Atlantico.
C’è una politicizzazione dell”istruzione che sta trasformando le scuole (e le università) in campi di battaglia culturale, portando più alla divisione che alla solidarietà, scrive il Guardian. Molti consigli scolastici negli ultimi anni sono diventati campi di battaglia di guerra culturale, notano molti analisti ed insegnanti americani. ‘Negli ultimi anni, le scuole sono diventate sempre più luoghi di conflitto’, ha affermato John Rogers, professore di educazione all’Università della California, a Los Angeles, che studia questioni legate alla democrazia, all’istruzione e alla disuguaglianza. ‘Ciò ha reso gli spazi delle scuole più controversi e le politiche educative più partigiane’.
Non si tratta solo della vecchia e complicata questione del rapporto tra scuola e politica. Si tratta di capire, come vorremmo fare in queste pagine, come difendere la libertà di poter scegliere. Di poter pensare ‘altro’ e di poter pensare ‘oltre’. Sui media americani la polemica sul corretto rapporto tra scuola e politica è diventata una vera guerra mediatica dopo il massacro di Hamas e le reazioni di Israele su Gaza. Il problema non è la gravosità dei temi che la scuola deve poter affrontare anche conflittualmente: la riflessione va nella direzione di quali siano i rischi conseguenti, senza una complessità di ragionamento che sappia arginare il dualismo a-critico.
‘Dalla resa dei conti razziale in seguito all’omicidio di George Floyd nel 2020 fino  all’impegno per nuovi atteggiamenti verso le diversità, l’equità e l’inclusione, le scuole sono diventate una calamita per qualsiasi controversia politica in modi mai visti prima’, ha affermato Jon Valant, senior Fellow in Governance Studies presso la Brookings Institution e studioso delle disuguaglianze nelle scuole statunitensi.
‘Nel loro insieme, questi fattori hanno fatto in modo che le scuole abbiano difficoltà a generare discussioni produttive su questioni complesse. E hanno messo insegnanti e amministratori a considerare le dichiarazioni ufficiali come un modo per superare le pressioni esterne’.
Scuola e politica, un equilibrio da sempre difficile, è reso ancora più intricato dalla cultura social che costruisce ogni convinzione sullo scontro permanente.
Bisogna essere ‘da una parte o dall’altra’ senza troppe sfumature.
Schierarsi. Sempre, su ogni questione, urbana o planetaria. E’ il sale di ogni dibattito, il seme di ogni cambiamento: eppure la scuola deve essere di più e altro, più ambiziosa e più complessa.
E’ su questo punto che The Global Eye propone una discussione propositiva.
Se valori, conoscenze e orientamenti politici fanno implicitamente parte di ogni nostra espressione comunicativa e non possono frapporsi norme né divieti, e neppure si può chiedere agli insegnanti di essere degli automi, le strumentalizzazioni vanno interpretate.
Se le scuole si trasformano in luoghi di conflitto permanente, rischiano di perdere il proprio prestigio ed essenzialità. Claudine Gay, presidentessa dell’Università di Harvard, commenta sui fatti di Gaza: ‘I miei studenti non stanno discutendo di “genocidio”, stanno cercando la libertà di imparare’.
Il tema diventa profondo e investe la trasformazione e il ruolo che hanno i luoghi accademici che, a loro volta, stanno diventando meno attraenti. Negli States la percentuale di giovani che ritiene che una laurea sia molto importante è scesa dal 74% nel 2013 al 41%. Non è certo colpa della conflittualità. È il segno che si devono cercare nuove proposizioni complesse. E non solo negli States.

(English version)

Hate is above all a story. A reference that is replicated for models that in turn replicate inequalities: one against the other. Conflicts need hate. There is something deeper in what is happening in schools and universities in the United States. It is not the ‘measure’ of how much one takes the side of the Palestinians or Israel. There is an underlying theme. The American media discuss it but the observation is also useful to us, on this side of the Atlantic. There is a politicization of education that is turning schools (and universities) into cultural battlegrounds, leading more to division than solidarity, writes the Guardian. Many school boards in recent years have become culture war battlegrounds, many American analysts and teachers note. ‘In recent years, schools have increasingly become places of conflict’, said John Rogers, professor of education at the University of California, Los Angeles, who studies issues related to democracy, education and inequality. ‘This has made school spaces more contentious and education policies more partisan’. It’s not just the old and complicated question of the relationship between school and politics. It is a question of understanding, as we would like to do in these pages, how to defend the freedom to choose. To be able to think ‘other’ and to be able to think ‘beyond’. In the American media, the controversy over the correct relationship between school and politics has become a real media war after the Hamas massacre and Israel’s reactions to Gaza. The problem is not the burdensomeness of the issues that the school must be able to address, even in a conflictual manner: the reflection goes in the direction of what the consequent risks are, without a complexity of reasoning capable of stemming the a-critical dualism. ‘From the racial reckoning following the murder of George Floyd in 2020 to  the push for new attitudes towards diversity, equity and inclusion, schools have become a magnet for any political controversy in ways never seen before‘, said Jon Valant, a senior fellow in Governance Studies at the Brookings Institution and a scholar of inequalities in US schools. ‘Taken together, these factors have meant that schools struggle to generate productive discussions on complex issues. And they made teachers and administrators consider official statements as a way to overcome external pressures’. School and politics, a balance that has always been difficult, is made even more intricate by the social culture that builds every belief on permanent conflict. You have to be ‘on one side or the other’ without too many nuances. Take sides. Always, on every issue, urban or planetary. It is the salt of every debate, the seed of every change: yet the school must be different, more ambitious and more complex. It is on this point that The Global Eye proposes a proactive discussion. If values, knowledge and political orientations are implicitly part of all our communicative expressions and no rules or prohibitions can be interposed, nor can teachers be asked to be automatons, exploitations must be interpreted. If schools transform into places of permanent conflict, they risk losing their prestige and essentiality. Claudine Gay, president of Harvard University, comments on the events in Gaza: ‘My students are not discussing “genocide”, they are seeking the freedom to learn’. The theme becomes profound and concerns the transformation and role played by academic places which, in turn, are becoming less attractive. In the States, the percentage of young people who believe that a degree is very important has fallen from 74% in 2013 to 41%. It’s certainly not the fault of the conflict. It is the sign that we must look for new complex propositions. And not just in the States.

(riproduzione autorizzata citando la fonte – reproduction authorized citing the source)

Latest articles

Related articles