Realismo digitale, libertà, politica

Ci vuole “realismo digitale”. Nel tempo che viviamo, infatti, l’utilizzo dei dati personali da parte delle aziende tecnologiche e delle istituzioni pubbliche è un punto estremamente sensibile. Scrive Bremmer (Il potere della crisi, 2022, p. 144): Ogni giorno gli americani generano circa 2,5 quintilioni di byte di sati (2,5 seguito da diciotto zeri). Chiama Uber. Apri Google Maps. Clicca su un pulsante per dire a Facebook e Instagram che cosa ti piace. Vai su Amazon per comprare qualcosa. Paga con Venmo o PayPal. Aggiungete le app che registrano frequenza cardiaca, pressione sanguigna e numero di passi. Tutte queste informazioni vengono raccolte, organizzate e monetizzate, e a meno che non siate tra i pochissimi disposti a dedicare quarantacinque minuti alla lettura di una liberatoria legale, cliccherete su “Accetto”: accetto di condividere i miei dati senza nemmeno pensarci.

Ci sembra che l’espressione “capitalismo della sorveglianza” non aiuti a spiegare il legame tra il turbo capitalismo e la sorveglianza diffusa, anche in democrazia. Il tema vero, nella rivoluzione tecnologica, è il rapporto con la libertà nelle società aperte.

Il capitalismo si è prima finanziarizzato, poi digitalizzato e, in questi passaggi, si è velocizzato in una competizione non più sostenibile. Il prezzo della “comodità tecnologica”, lo vediamo, è nell’impercettibile ma effettivo passaggio dalla libertà sostanziale a una pseudo libertà che ci permette di fare molte cose in un controllo sociale sempre più evidente e sempre più profondo.

Fare questo ragionamento significa sottolineare l’assenza di politica. La tecnologia oggi, come la televisione quando fu inventata, risponde al bisogno delle persone di migliorare la propria vita, anche evadendo nei mondi dell’immaginario. La questione della gestione dei dati, così importante, paga l’incapacità di una regolazione adeguata in un rapporto disequilibrato tra le aziende tecnologiche e le istituzioni democratiche.

Il problema non è la tecnologia in quanto tale ma la crisi de-generativa delle democrazie liberali. Le classi dirigenti hanno pensato di poter governare i passaggi imposti dalla rivoluzione tecnologica con decisioni ancora novecentesche. Le democrazie hanno una responsabilità maggiore rispetto alle autocrazie: perché le prime dovrebbero custodire la libertà e non usarla per rafforzare i propri strumenti di potere a discapito dei cittadini.

Il vero discorso strategico, in questo tempo storico, è nella libertà, nel cercare di capirne la traiettoria e di correggerla ri-ponendo al centro lo spazio comune e le relazioni. La tecnologia è un utilissimo strumento affinché tutto questo possa avvenire. La potenza delle frontiere tecnologiche non può arrivare a togliere valore all’uomo e alla convivenza ma deve rafforzarli aiutando la politica a ri-trovare il suo ruolo storico nel governo di mondi e di un mondo percorsi dall’incertezza e sempre più complessi.

 

Marco Emanuele
Marco Emanuele è appassionato di cultura della complessità, cultura della tecnologia e relazioni internazionali. Approfondisce il pensiero di Hannah Arendt, Edgar Morin, Raimon Panikkar. Marco ha insegnato Evoluzione della Democrazia e Totalitarismi, è l’editor di The Global Eye e scrive per The Science of Where Magazine. Marco Emanuele is passionate about complexity culture, technology culture and international relations. He delves into the thought of Hannah Arendt, Edgar Morin, Raimon Panikkar. He has taught Evolution of Democracy and Totalitarianisms. Marco is editor of The Global Eye and writes for The Science of Where Magazine.

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